Poteri dello Stato e autonomia della funzione giudiziaria Ecclesiastica

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Prof. Paolo Moneta
Prolusione per l’inaugurazione dell’anno giudiziario del Tribunale Ecclesiastico Regionale Siculo

1) Sintomi di contrarietà verso la funzione giudiziaria svolta dalla Chiesa.

Da qualche tempo si stanno verificando, da parte di organi dello Stato italiano, prese di posizione che denotano una certa diffidenza, un senso di contrarietà verso la funzione giudiziaria svolta dalla Chiesa, interventi che lasciano trasparire l’intento di contenere tale funzione, di limitarne l’applicazione, di controllarne e, ove possibile, di censurarne il concreto esercizio.

Particolarmente significative di questo indirizzo sono alcune sentenze della Corte di Cassazione che possiamo brevemente rievocare.

Il 12 marzo 2004, con sentenza 22827, la quinta sezione penale della Suprema Corte viene chiamata a pronunciarsi in un processo di diffamazione intentato da una delle parti di un giudizio ecclesiastico di nullità di matrimonio contro alcuni testimoni che, a suo dire, avevano falsamente affermato che essa era affetta da disturbi psichici e mentali. La sentenza non si pronuncia sul merito della questione, ma ritiene che l’accusa possa essere provata sentendo come testimoni coloro che erano stati presenti alla deposizione dei suddetti testi (ivi compreso il giudice istruttore) ed acquisendo i verbali della causa ecclesiastica[1].

In un altro settore, quello della delibazione delle sentenze ecclesiastiche di nullità del matrimonio, il 18 luglio 2008, con sentenza n. 19809, le Sezioni unite della Corte di Cassazione respingono la richiesta di attribuzione di effetti civili avanzata da uno dei due coniugi, ritenendo non accettabile, alla luce dei principi dell’ordine pubblico italiano, una dichiarazione di nullità per dolo, a sensi del canone 1098 del codice canonico. E ciò nonostante vi fosse un indirizzo largamente consolidato, ed avallato dalle stesse Sezioni unite, favorevole ad accettare, nell’ordinamento italiano, le differenze di regime tra diritto matrimoniale canonico e diritto matrimoniale civile, non ravvisando in esse alcun contrasto con l’ordine pubblico.

Sulla scia di questa pronuncia, più recentemente, la prima Sezione della Cassazione (20 gennaio 2011, n. 1343) ha rifiutato di attribuire effetti civili ad una dichiarazione di nullità pronunciata dai tribunali ecclesiastici per esclusione del bonum prolis dopo che i coniugi avevano convissuto per molti anni (circa venti, almeno sino alla separazione legale). Anche in questo caso la sentenza contraddice un consolidato indirizzo giurisprudenziale, fatto proprio anche dalle stesse Sezioni unite, che non riteneva in contrasto con l’ordine pubblico italiano il fatto che la dichiarazione di nullità venisse pronunciata dopo una prolungata convivenza coniugale[2].

In altro ambito, da varie parti giunge notizia di richieste della magistratura o di organi inquirenti italiani di accedere alla documentazione esistente presso i tribunali ecclesiastici, al fine di acquisire elementi utili alle indagini su eventuali reati od inadempienze di natura tributaria o disciplinare (come il rispetto del tempo pieno per i professori universitari, con riguardo all’attività professionale forense).

Possiamo aggiungere che questo atteggiamento di contrarietà verso la giustizia ecclesiastica aveva trovato una risonanza transnazionale presso la Corte europea dei diritti dell’uomo, che, con la ormai famosa sentenza Pellegrini del 20 luglio 2001, aveva censurato l’attribuzione di effetti civili, da parte della magistratura italiana, ad una sentenza ecclesiastica di nullità, perché nel procedimento svolto dinnanzi al tribunale ecclesiastico non sarebbe stato assicurato alla parte convenuta il diritto ad un “giusto processo”, per una carente tutela del suo diritto di difesa[3].

E’difficile capire se quelli ora ricordati costituiscanoepisodi pur sempre circoscritti, da attribuire prevalentemente all’iniziativa o alla determinazione di qualche singolo magistrato o funzionario statale oppure siano sintomi di una tendenza più generale. In questo secondo caso, saremmo di fronte ad una certa ripresa di atteggiamenti di stampo laicista, improntati ad una gelosa custodia della sovranità dello Stato e delle sue prerogative. Un atteggiamento pronto a censurare qualunque presa di posizione della gerarchia ecclesiastica come indebita ingerenza negli affari interni dello Stato; a considerare come fonte di inaccettabili privilegi a favore della Chiesa cattolica qualunque provvedimento statale che si mostri sensibile verso le esigenze religiose e che miri ad assicurareun più concreto esercizio della libertà religiosa. In questa prospettiva, anche la giustizia ecclesiastica, specialmente quando acquista rilevanza anche per l’ordinamento civile, è vista come un residuo di concezioni ormai superate, che vedevano lo Stato, come “braccio secolare”, dare concreta attuazione ai provvedimenti della Chiesa. Del tutto misconosciuta è, invece, la vera ragione che sta alla base del riconoscimento della giurisdizione ecclesiastica da parte dello Stato: quella di rendere più concreta ed operante la libertà religiosa dei cittadini, consentendo a quelli di fede cattolica di veder regolato il proprio matrimonio nell’ambito del loro ordinamento confessionale, dando rilevanza ai provvedimenti adottati dalle autorità in esso operanti[4].

L’orientamento di stampo laicista ora decritto non è certo in linea con l’atteggiamento di fondo che lo Stato italiano ha assunto nei confronti non solo della Chiesa cattolica, ma più in generale di qualunque espressione del sentire religioso. Un atteggiamento che poggia su un’attenta lettura dei principi consacrati nella nostra Costituzione e, in particolare, sul principio cardine della laicità dello Stato. Ricordando che tale principio va inteso secondo le indicazioni date dalla Corte costituzionale, ossia come un principio supremo del nostro ordinamento costituzionale che “implica non indifferenza dello Stato dinanzi alle religioni ma garanzia dello Stato per la salvaguardia della libertà di religione, in regime di pluralismo confessionale e culturale”. In virtù di questo principio, lungi dall’assumere un atteggiamento di indifferenza o di disinteresse, o meno ancora di avversione, lo Stato fa propria una concezione di laicità positiva od attiva: proprio in quanto laico, esso esprime una “logica strumentale”, una “attitudine” di servizio”, rispetto ai valori ed alle opzioni autonomamente espresse dai cittadini. Attitudine, come precisa ancora la Corte, “che risponde non a postulati ideologizzanti ed astratti di estraneità, ostilità o confessione dello Stato-persona o dei suoi gruppi dirigenti, rispetto alla religione o ad unparticolare credo, ma si pone a servizio di concreti interessi della coscienza civile e religiosa dei cittadini”[5].

Occorre però riconoscere che vi è nella legislazione italiana in cui viene ad inserirsi la nullità dei matrimoni concordatari un punto critico che può indubbiamente prestarsi ad alimentare quell’atteggiamento negativo verso la giustizia ecclesiastica che abbiamo oradescritto. Si tratta del regime economico che la legge italiana riconnette alla dichiarazione di nullità di matrimonio. Regime che non appresta un’adeguata tutela al coniuge più debole e che può quindi indurre ad un uso strumentale della giustizia ecclesiastica, asservendola a finalità di tornaconto economico, ben lontane dalla sua genuina natura di rimedio pastorale, destinato ad operare a livello di coscienza e di sensibilità religiosa. Ma mi riservo di tornare più avanti su questo importante argomento.

 

2) La libertà della Chiesa nell’esercizio della giurisdizione. Il limite della legge penale.

 

Arturo Carlo Jemolo ricordava “quegliscetticismi di vecchi maestri sulla possibilità di trattare giuridicamente problemi che hanno per sfondo lancinanti passioni politiche”, osservando che il diritto ecclesiastico “è forse la branca nella quali si sentono risuonare affermazioni più antitetiche, e dove ciò che all’uno pare evidente in un senso appare all’altro evidente nel senso opposto” Ma aggiungeva che mentre “l’uomo di parte potrà sempre auspicare un mutamento del diritto attuale in un senso o nell’altro e nella sua attività politica dare opera per un tale mutamento”, il giurista “deve indicare questo diritto com’è, e non falsarlo secondo i propri desideri”[6].

Raccogliendo questo monito, sforziamoci dunque di fare una ricognizione il più possibile obiettiva delle disposizioni legislative che vengono in considerazione nella nostra materia, con l’intento di mettere a fuoco sia le linee generali del sistema di rapporti fra lo Stato italiano e la Chiesa cattolica, sia le regole di concreta applicazione di tale sistema.

Punto di partenza non può che essere l’art. 7 della nostra Costituzione, che delinea il principio di fondo della reciproca indipendenza e sovranità dello Stato e della Chiesa, ciascuno nella propria sfera di operatività. E’ un principio di grande importanza, ma che rischia – come non di rado avviene per le affermazioni a livello costituzionale – di rimanere confinato nell’ambito delle proclamazioni teoriche. Occorre quindi verificare più da vicino come questo principio venga tradotto ed applicato delle diverse situazioni che si verificano nel concreto dell’esperienza sociale.

Una prima più specifica traduzione del principio ora delinato, anche se ancora a livello di principi generali, la troviamo nella disciplina concordataria che regola i rapporti tra lo Stato italiano e la Chiesa cattolica, disciplina, occorre ricordarlo, che ha un preciso aggancio nello stesso art. 7, 2°c. della Costituzione e che in virtù di esso, si colloca, nelle fonti del diritto, in posizione di preminenza rispetto alla legge ordinaria.

Nelle disposizioni di apertura dell’accordo del 18 febbraio 1984, oltre alla riaffermazione del principio costituzionale della reciproca indipendenza e sovranità dello Stato e della Chiesa, si sottolinea l’impegno “al pieno rispetto di tale principio nei loro rapporti ed alla reciproca collaborazione per la promozione dell’uomo e il bene del paese”. Conseguentemente – prosegue l’accordo all’art.2 – “La Repubblica italiana riconosce alla Chiesa cattolica la piena libertà di svolgere la sua missione pastorale, educativa e caritativa, di evangelizzazione e di santificazione. In particolare è assicurata alla Chiesa la libertà di organizzazione, di pubblico esercizio del culto, di esercizio del magistero e del ministero spirituale nonché della giurisdizione in materia ecclesiastica”.

Come si vede, il riconoscimento della indipendenza e libertà della Chiesa da parte dello Stato italiano, da una generale (e inevitabilmente anche generica) affermazione di principio, si va specificando in ordine a singoli settori o materie dove tale libertà ha modo di essere più concretamente esercitata: l’organizzazione interna della stessa Chiesa, il culto, il magistero, il ministero spirituale e la giurisdizione in materia ecclesiastica.

Concentriamoci su quest’ultimo punto, quello specifico della giurisdizione, e vediamo se si possono reperire principi o regole più precise sul concreto esercizio di tale attività da parte della Chiesa in condizioni di libertà.

Un primo punto che viene in considerazione è quello della presenza, nell’ordinamento italiano, di una legislazione penale che si impone a tutti coloro che operano nel territorio dello Stato, indipendentemente dalla qualifica personale e dal tipo di attività che essi svolgono. Certamente le vicende umane sono molto complesse e lo stesso diritto penale riconosce che possono esserci delle cause scriminanti o di giustificazione del comportamento contrario alle leggi penali: ma si tratta di cause pur sempre eccezionali, esattamente individuate e definite dallo stesso legislatore. Al di fuori di queste speciali circostanze, la legge penale spiega tutto il suo vigore, perché si pone a presidio di valori che si ritengono di grande importanza nella vita sociale e quindi degni di una tutela rafforzata e particolarmente intensa come quella di natura penale.

Il compimento di atti che integrano una fattispecie di reato non possono quindi essere sottratti all’incriminazione penale, anche se risultano compiuti nell’esercizio dell’attività giudiziaria propria della Chiesa. Si può così ipotizzare un giudice che inserisca in sentenza frasi gravemente ingiuriose verso una delle parti, tali da integrare il reato di diffamazione (art. 595 c. p.); un perito d’ufficio che nel sottoporre la parte ad accertamenti medici gli provochi lesioni personali (art. 582 c.p.); un giudice istruttore che profferisca gravi minacce, tali da integrare il reato di cui all’articolo 612 c.p., per indurre un teste a dire la verità.

Come si vede, si tratta di comportamenti del tutto anomali rispetto al comune esercizio dell’attività giudiziaria, che non trovano alcun riscontro (ed anzi sono talora oggetto di esplicita riprovazione) nella normativa canonica che disciplina tale attività. Possiamo quindi affermare che l’osservanza di tale normativa non comporta, almeno nella normalità dei casi, il compimento di atti di rilevanza penale.

Ove, in casi eccezionali, fosse dato di ravvisare alcuni profili di rilevanza penalistica nel compimento di attività che rientrano nell’esercizio della funzione giudiziaria si aprirebbe la via all’applicazione di una speciale circostanza esimente prevista dal diritto italiano: quella di cui all’art. 51 del codice penale secondo il quale “L’esercizio di un diritto o l’adempimento di un dovere imposto da una norma giuridica o da un ordine legittimo della pubblica Autorità, esclude la punibilità”.

Non occorrono particolari forzature interpretative per ritenere che il dovere, per il cui adempimento il soggetto arriva a compiere un fatto oggettivamente integrante una fattispecie di reato, può derivare non soltanto da disposizioni interne all’ordinamento italiano, ma anche appartenenti ad ordinamenti giuridici diversi, compresi quelli di natura confessionale[7]. Anzi, si può dire che non di rado i precetti religiosi, agendo nel profondo della coscienza individuale, si impongono con forza vincolante superiore a quella propria dei comandi provenienti da norme statali e quindi, a maggior ragione di questi, possono giustificare il compimento di azioni di per se stesse riprovate dalla legge penale.

Quest’ordine di idee ha trovato accoglienza in alcuni, ormai lontani (risalgono al 1969 – 1970), precedenti giurisprudenziali a favore di soggetti che avevano deposto, come parti e come testimoni, dinanzi al tribunale ecclesiastico in una causa di nullità di matrimonio. Essi, pur avendo pronunciato frasi idonee ad offendere la reputazione altrui, sono stati ritenuti non punibili perché avevano agito nell’esercizio di un diritto (quello di far valere le proprie ragioni, per la parte in causa) o per l’adempimento di un dovere (quello, per il teste, di dire la verità), previsti nell’ordinamento canonico[8].

Più di recente (nel 2001), al di fuori del campo delle nullità matrimoniali, l’articolo 51 c. p. è stato ritenuto applicabile nei confronti di un frate accusato di favoreggiamento, perché era andato a celebrare messa nel luogo dove si nascondeva un mafioso latitante[9].

Grazie a questa speciale circostanza esimente, coloro che agiscono nell’ambito di un processo matrimoniale dinanzi ai tribunali ecclesiastici, tenendo comportamenti che sono prescritti dal diritto canonico (come quello di osservare il segreto, di dire la verità in ordine a fatti o circostanze rilevanti ai fini della causa), non saranno quindi passibili della pena che avrebbe potuto essere oggettivamente collegata alla loro azione[10].

 

 

3) La tutela del segreto ministeriale.

 

Dopo queste precisazioni di carattere generale, occorre vedere più da vicino quali mezzi concreti di tutela si possono rinvenire per assicurare alla Chiesa il libero esercizio della sua funzione giudiziaria.

Una delle esigenze fondamentali per lo svolgimento di questa funzione è indubbiamente quella di mantenere su di essa la massima riservatezza, di non divulgare notizie, informazioni, sui dati riguardanti la vita delle persone che vengono raccolti nello svolgimento di tale funzione.

Un primo strumento che mira a salvaguardare questa esigenza è quello del segreto ministeriale. In virtù di questo istituto, non si può essere costretti a rivelare circostanze apprese nell’esercizio della propria specifica attività professionale o ministeriale, anche quando vi sia un obbligo generale di rivelazione. Più precisamente, l’articolo 200 c.p.p., applicabile anche al processo civile (art. 249 c.p.c.) introduce una deroga all’obbligo generale di rendere testimonianza nell’ambito del processo a favore di un’ampia categoria di soggetti (avvocati, notai, investigatori privati autorizzati, esercenti una professione sanitaria e, più in generale, altri uffici o professioni tenuti per legge al segreto professionale) tra i quali sono espressamente ricompresi i “ministri di confessioni religiose, i cui statuti non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano”. Tutti questi soggetti non possono “essere obbligati a deporre su quanto hanno conosciuto per ragione del proprio ministero ufficio o professione”.

La medesima regola trova applicazione anche in altri casi nei quali è previsto un obbligo di dare informazioni nell’ambito dell’attività processuale: così nel caso di assunzione di sommarie informazioni da parte della polizia giudiziaria (art. 351 c.p.p.) o di informazioni da parte del pubblico ministero nel corso delle indagini preliminari (art. 362 c.p.p.). Ma, cosa ancor più importante, trova un suo naturale completamento nei confronti di atti, documenti, materiale di vario genere di cui i soggetti prima menzionati siano venuti in possesso “per ragionidel loro ufficio, incarico, ministero, professione o arte”. Anche in questo caso, tali soggetti non sono tenuti al dovere di esibire tale materiale all’autorità giudiziaria. (art. 256 c.p.c.). Un’analoga tutela del segreto è prevista, nell’ambito del processo civile, per l’ordine di ispezione di persone o cose (art. 118, 1° c.p.c.) e per l’ordine di esibizione in giudizio, alla parte o al terzo,di un documento o altra cosa ritenuta necessaria per il processo (v. art. 210, 1° c.p.c.).

Questa normativa posta a tutela del segreto ministeriale viene ripresa e più ampiamente articolata dall’accordo concordatario vigente tra lo Stato e la Chiesa cattolica. L’art. 4 di tale accordo prevede infatti espressamente che “gli ecclesiastici non sono tenuti a dare ai magistrati o ad altra autorità informazioni su persone o materie di cui siano venuti a conoscenza per ragione del loro ministero”.

Occorre subito rilevare che questa disposizione non si limita a ribadire e a dare maggiore visibilità ad una regola già prevista nell’ordinamento giuridico italiano. Essa infatti, facendo riferimento alle informazioni che devono essere date all’autorità, introduce una tutela del segreto di carattere più generale, non limitata alla sola testimonianza od esibizione di documenti. Sancisce, insomma, un principio generale che si ricollega strettamente, costituendone una specifica applicazione, a quello, ancor più generale, di autonomia della Chiesa consacrato, come abbiamo visto, dalle disposizioni costituzionali e concordatarie. E proprio per questo suo stretto collegamento esso è dotato di una forza espansiva che lo rende un ineliminabile punto di riferimento per l’interpretazione e l’applicazione concreta di tutta la normativa in materia[11].

Con più specifico riferimento alla tutela del segreto ministeriale, si possono così mettere in rilievo alcune conseguenze di rilevante importanza che discendono dal principio di carattere generale ora delineato.

Innanzi tutto sui controlli che la legge italiana riserva all’autorità giudiziaria sulla legittimità dell’astensione dalla testimonianza e dal rifiuto dell’esibizione di documenti. Riguardo alla testimonianza è infatti previsto che il giudice “se ha motivo di dubitare che la dichiarazione resa da tali persone per esimersi dal deporre sia infondata, provvede agli accertamenti necessari. Se risulta infondata, ordina che il testimone deponga”(così, ancora, l’art. 200 c.p.p.). Riguardo all’esibizione di documenti, gli interessati devono dichiarare per iscritto che “si tratti di segreto inerente al loro ufficio o professione” (art. 256 c.p.c.). Anche in questo caso è previsto che l’autorità giudiziaria, se ha motivo di dubitare della fondatezza di tale dichiarazione (e ritenga di non poter procedere senza acquisire tale materiale), provveda agli accertamenti necessari e, se la dichiarazione risulti infondata, ordini il sequestro.

Il principio generale prima ricordato non può che portare ad un’interpretazione riduttiva delle disposizioni ora richiamate, tale da ridimensionare fortemente il potere dell’autorità giudiziaria. Il controllo che essa può legittimamente esercitare dovrà quindi limitarsi a dati estrinseci e formali. Soltanto in caso di evidente estraneità all’ambito ministeriale delle informazioni richieste egli potrà quindi ordinare al teste di deporre o disporre il sequestro del materiale richiesto[12].

La seconda conseguenza che possiamo trarre dal principio di autonomia dell’attività ministeriale della Chiesa al quale ci stiamo riferendo riguarda l’estensione delle materie che possono essere considerate protette del segreto ministeriale. Non c’è dubbio che in esse vada ricompresa l’attività giudiziaria che si svolge nell’ambito degli organismi ecclesiastici a ciò deputati. La funzione di rendere giustizia, tanto più nel delicato settore delle cause matrimoniali, costituisce infatti una delle tante espressioni dell’attività con cui la Chiesa adempie alla sua missione, facendosi carico e cercando di soddisfare le esigenze spirituali dei propri fedeli. Costituisce quindi, a pieno titolo, un’attività ministeriale[13].

La natura ministeriale della funzione giudiziaria non può essere limitata al solo momento conclusivo di essa, alla sua fase decisionale, a quell’attività che più direttamente incide sulla situazione personale dei fedeli. In realtà, anche l’attività compiuta nello svolgimento del processo è di natura giurisdizionale (e quindi ministeriale), perché concorre in modo determinante alla formazione del prodotto finale e non può essere da questo isolata o separata. Anche lo svolgimento istruttorio del processo ecclesiastico, in tutte le sue articolazioni, costituisce quindi pur sempre un’attività ministeriale, né può essere considerata un’attività meramente tecnica o strumentale, che si colloca al di fuori dei compiti ministeriali.

Il terzo punto da considerare in connessione con il principio generale di tutela delle prerogative ministeriali svolte dalla Chiesa è quello dei soggetti che possono concretamente beneficiare di tale tutela. Tornando alle disposizioni legislative specifiche che abbiamo prima richiamato, abbiamo visto che in esse si parla di ministro delle confessioni e, con più specifico riferimento alla Chiesa cattolica, di ecclesiastici. La deroga dall’obbligo di testimoniare e di consegnare documenti sembrerebbe quindi valere per questi soli soggetti.

Ma a parte le discussioni dottrinali sulla effettiva estensione da attribuire ai termini di ministro di culto e di ecclesiastico[14], se il principio di fondo da cui occorre partire è quello della tutela dell’autonomia della Chiesa nell’esercizio della sua attività ministeriale, quello che conta non è la qualificazione personale canonica del soggetto che svolge tale attività (che sia sacerdote, diacono, religioso o laico), ma il fatto che egli effettivamente svolga compiti di natura propriamente ministeriale[15]. Le disposizioni riguardanti la testimonianza e l’esibizione dei documenti debbono quindi valere sia per i giudici, siano essi chierici o laici, sia per tutte le altre figure che prendono istituzionalmente parte al processo in posizione di interlocutori o di ausiliari del giudice, il cui apporto è necessario per il regolare compimento dell’attività giudiziaria. Si tratta del promotore di giustizia e del difensore del vincolo, dei cancellieri o notai, dei periti ed anche degli stessi avvocati.

Queste conclusioni trovano conferma anche in una più specifica disposizione legislativa, quella dell’art. 195, 6° c.p.p., che estende l’esonero dalla prova testimoniale anche a coloro che abbiano comunque conosciuto i fatti dai diretti titolari del segreto ministeriale o professionale. Il segreto potrebbe infatti essere facilmente eluso se non si estendesse anche ai diretti collaboratori od ausiliari del professionista e non si consentisse anche a questi di fruire di quelle facoltà di astensione (dalla testimonianza, dall’esibizione di documenti) riconosciute in via principale al diretto titolare del segreto. Ben può quindi la disposizione ora citata essere applicata a tutti coloro che svolgono una funzione ausiliaria o complementare nel processo ecclesiastico e che, in virtù dei compiti ad essi assegnati, vengono a conoscenza di notizie attinenti all’attività ministeriale giudiziaria e, come tali, di natura tale da non consentire la loro rivelazione[16].

Si conferma così che il complesso delle attività compiute nell’adempimento della funzione di rendere giustizia nell’ambito della Chiesa sono poste al riparo da interventi od intromissioni degli organi statali che potrebbero disturbarne il regolare e sereno svolgimento. E ciò sia in ragione di un principio di carattere generale, che ha trovato consacrazione a livello costituzionale e concordatario, in virtù del quale viene riconosciuta alla Chiesa una posizione di “indipendenza e sovranità” rispetto allo Stato e le viene assicurata “piena libertà di svolgere la sua missione”; sia in ottemperanza a varie disposizioni di legge ordinaria che presidiano più concretamente la libertà di azione della Chiesa in determinati ambiti e che, per ragioni di coerenza sistematica, devono essere interpretate ed applicate in linea con il suddetto principio.

 

 

4) I limiti alla delibazione delle sentenze ecclesiastiche: diritto di difesa e ordine pubblico italiano.

 

Passiamo ora all’altro settore dell’attività giudiziaria della Chiesa su cui volevo soffermarmi, quello che più direttamente viene a ripercuotersi nell’ordinamento giuridico italiano, ossia quello delle sentenze di nullità del matrimonio. Com’è noto, l’accordo di revisione del concordato lateranense prevede che tali sentenze siano “dichiarate efficaci nella Repubblica italiana con sentenza della corte d’appello competente”, previo accertamento di una serie di requisiti che ne assicurino la compatibilità ad alcune esigenze essenziali proprie dell’ordinamento giuridico italiano. Il modello di riferimento di questa disciplina concordataria è indubbiamente quello del riconoscimento delle sentenze straniere, sia pure con alcuni adattamenti imposti dalla speciale natura delle sentenze ecclesiastiche. Tant’è vero che lo stesso testo concordatario, dopo aver esplicitamente indicato alcuni dei requisiti sui quali deve svolgersi l’accertamento della Corte d’appello, prevede un più generale rinvio alle “altre condizioni richieste dalla legislazione italiana per la dichiarazione di efficacia delle sentenze straniere” (art. 8, n. 2).

Il controllo che lo Stato italiano si è riservato sulle sentenze ecclesiastiche mira essenzialmente a salvaguardare due esigenze fondamentali, l’una di natura processuale, l’altra di natura sostanziale. Occorre cioè, sotto il primo profilo, che che nel procedimento davanti ai tribunali ecclesiasticisia stato “assicurato alle parti il diritto di agire e di resistere in giudizio, in modo non difforme dai principi fondamentali dell’ordinamento italiano”. Il secondo profilo, di natura sostanziale, esige che la sentenza ecclesiastica non risulti contraria ai “principi dell’ordine pubblico italiano”.

L’interpretazione data dalla giurisprudenza nei primi anni di applicazione di questa disciplina concordataria è stata indubbiamente rispettosa dell’autonomia della Chiesa e delle peculiarità della funzione giudiziaria che essa svolge e si è dimostrata attenta a non sovrapporre principi od esigenze di matrice civilistica a quelli propri della giustizia ecclesiastica.

Così, sotto il profilo processuale, la giurisprudenza si è mantenuta nel solco già tracciato dalla Corte costituzionale con la fondamentale sentenza del 2 febbraio 1982, emanata prima ancora della firma del nuovo accordo concordatario: ossia che la Corte d’appello deve limitarsi a controllare che nel giudizio ecclesiastico siano stati rispettati gli “elementi essenziali del diritto di agire e di resistere a difesa dei propri diritti”, con riferimento “a quel minimo essenziale di possibilità di difesa, che non può essere superato nemmeno da quella maggiore disponibilità che l’ordinamento statuale dimostra verso le sentenze canoniche rispetto alle sentenze di altri ordinamenti stranieri”. Il controllo del giudice italiano deve quindi, più specificamente, avere ad oggetto il rispetto “dell’essenziale garanzia del contraddittorio – la quale si atteggia diversamente in ragione dei diversi tipi di processo – dinnanzi ad un giudice imparziale” e va quindi eseguito “non per riscontrare se siano state puntualmente rispettate tutte le norme canoniche e se queste norme diano le stesse garanzie offerte nel nostro ordinamento, ma per accertare…. che le parti abbiano avuto una sufficiente possibilità di provvedere alla propria difesa davanti al giudice competente ed in contraddittorio fra loro” [17].

In questa prospettiva si è ritenuto che non possono essere presi in considerazione, al fine di negare riconoscimento civile alle sentenze ecclesiastiche, “i rilievi formulati in astratto nel contesto di una critica teorica dell’ordinamento processuale canonico in rapporto con quello italiano”, “mettendo a confronto pedissequamente l’ordinamento del processo canonico con quello procedurale italiano”: occorre invece denunciare singoli vizi verificatisi in concreto nel procedimento, tali da porsi in contrasto con il corretto esercizio del diritto di difesa delle parti[18].Si può quindi, in conclusione, ritenere che, data la sostanziale conformità del diritto processuale canonico ai principi fondamentali dell’or­dinamento italiano, non potranno in concreto verificarsi violazioni del principio che stiamo considerando quando il giudizio si è svolto in conformità a tale diritto, ma soltanto in dipendenza di gravi anomalie od irregolarità verificatesi nella procedura canonica.

Anche riguardo all’altro profilo, quello sostanziale del rispetto dei principi dell’ordine pubblico italiano, si è fatto costante riferimento alle indicazioni contenute nella già citata sentenza 2 febbraio 1982, n. 18 della Corte costituzionale, che aveva definito l’ordine pubblico come quel complesso di “regole fondamentali poste dalla Costituzione e dalle leggi a base degli istituti giuridici in cui si articola l’ordinamento positivo nel suo perenne adeguarsi all’evo­luzione della società”.

Alla luce di questo rigoroso concetto di ordine pubblico, che si è soliti denominare ordine pubblico internazionale, la giurisprudenza della Corte di Cassazione ha costantemente ritenuto che non sono in contrasto con esso le differenze di regime riscontrabili tra diritto matrimoniale civile e diritto matrimoniale canonico, sia per quanto riguarda la configurazione dei vari capi di nullità, sia per quanto riguarda la possibilità di farli valere in giudizio. Sono state così tranquillamente delibate sentenze ecclesiastiche che hanno dichiarato la nullità del matrimonio per motivi di nullità che non trovano preciso riscontro nell’ordinamento civile, come nel caso di simulazione parziale, ossia di esclusione, da parte di uno o di ambedue i nubenti, di una proprietà o di un elemento essenziale del matrimonio (i tradizionali bona matrimonii: unità, indissolubilità e generazione della prole); o come nel caso di condizione de futuro apposta al consenso matrimoniale[19]; in quello di incapacità di assumere le obbligazioni coniugali, che costituisce una figura ben diversa dall’incapacità di intendere e di volere di cui all’art. 120 c.c.[20]; in quello dell’ errore su di una qualità dell’altro coniuge (nella specie sulla qualità di “laureato”), nonostante la diversità dei criteri in base ai quali l’ordinamento civile assegna rilievo invalidante all’errore (l’art. 122 c.c., contrariamente alla disciplina canonistica, prevede infatti la rilevanza dell’errore soltanto in una serie di ipotesi tassativamente indicate)[21].

Alla stessa stregua, non si è dato rilievo, ai fini di un eventuale contrasto con i principi di ordine pubblico, al fatto che il diritto canonico, contrariamente al diritto civile, non ponga alcuna limitazione alla legittimazione dei due coniugi ad agire nelle cause di nullità di matrimonio e consenta che tali cause siano esperite senza limiti di tempo. Altro è infatti, come osservava già una delle prime sentenze, “che i due ordinamenti facciano scelte diverse, anche su punti essenziali della disciplina dell’istituto. Altro è che la scelta fatta dall’ordinamento esterno sia tale da sconvolgere davvero i fondamenti della nostra disciplina matrimoniale”[22].

Nei primi anni di applicazione del nuovo regime concordatario vi era stato in realtà un tentativo, nell’ambito della stessa Cassazione, di respingere la delibazione di sentenze ecclesiastiche di nullità per simulazione, allorquando vi fosse stata un’effettiva convivenza coniugale. In questi casi, secondo questa impostazione, si sarebbe dovuto salvaguardare un principio di fondamentale importanza (e quindi attinente all’ordine pubblico) consistente nella tutela che l’ordinamento assicura al “rapporto matrimoniale nella sua concreta realizzazione, quale formazione sociale ove si svolge la personalità del singolo”. “la vitalità del matrimonio-rapporto”, sempre secondo questa impostazione, preclude pertanto la possibilità “di esaminare e sanzionare la nullità del matrimonio-atto”, con la conseguenza che la sentenza ecclesiastica potrà essere delibata soltanto se il matrimonio “nonabbia avuto, nell’ambito della comunità civile, una concreta attuazione, una effettiva realizzazione per la mancata convivenza dei coniugi”[23].

Questo tentativo era però stato subito stroncato da un deciso intervento delle Sezioni unite, ben ferme nel fare riferimento ad un concetto di ordine pubblico “quale espressione di principi e di regole fondamentali con le quali la Costituzione e le leggi dello Stato delineano l’istituto del matrimonio”. La regola che impedisce l’impugnazione del matrimonio nei casi di intervenuta convivenza tra i coniugi, benché norma imperativa interna – osservava la Suprema Corte – non può essere ricompresa in tale concetto, perché né le disposizioni costituzionali, né quelle della legislazione ordinaria consentono di affermare che la “stabilità del vincolo comunque realizzatasi, e quindi anche attraverso la convivenza dopo la celebrazione, rappresenta la dimensione normativa dell’effettività dell’unione che impedisce di dare rilievo al difetto genetico dell’atto costitutivo”[24].

L’unico profilo di contrasto con i principi dell’ordine pubblico italiano individuato dalla giurisprudenza della Cassazione nell’arco di oltre vent’anni è stato, come tutti sanno, quello della “riserva mentale”, ossia dell’esclusione di uno dei bona matrimonii attuata da uno degli sposi all’insaputa dell’altro. Sin da una prima fondamentale sentenza della Cassazione del 1° ottobre 1982, n. 5062 a Sezioni unite è stato infatti stabilito il principio, costantemente ribadito sino ai nostri giorni, che la sentenza ecclesiastica di nullità per esclusione di uno dei bona matrimonii da parte di uno degli sposi contiene disposizioni contrarie all’ordine pubblico italiano, e quindi non può essere dichiarata esecutiva, “se l’esclusione sia rimasta nella sfera psichica del suo autore”; non contiene invece disposizioni contrarie all’ordine pubblico italiano, e quindi può essere dichiarata esecutiva, se “l’esclusione sia stata manifestata all’altro coniuge, ovvero se questi l’abbia in concreto conosciuta, oppure se non l’abbia potuta conoscere a cagione della propria negligenza”[25].

Il principio di ordine pubblico che viene in considerazione in questi casi è quello della tutela della buona fede e dell’affidamento incolpevole, considerato un principio che “permea di sé l’ordinamento positivo dello Stato” e che costituisce “una delle regole fondamentali, poste dalla Costituzione e dalle leggi a base degli istituti giuridici apprestati dall’ordinamento positivo nel suo perenne adeguarsi all’evoluzione della società, in cui si sostanzia l’ordine pubblico italiano relativamente alle vicende dei matrimoni concordatari”. Tale principio – è bene rilevarlo – non attiene propriamente al regime matrimoniale, ma più in generale al regime delle obbligazioni e degli impegni contrattuali. E va ancora precisato che esso non opera in modo oggettivo ed indifferenziato, ma soltanto se viene concretamente fatto valere dalla parte che intende essere tutelata nel suo affidamento.

Cassazione divisa

In sede di delibazione della sentenza ecclesiastica si deve infatti “volta a volta, nel confronto della singola vicenda, accertare se la parte tutelata chiede che il vincolo sia mantenuto o dichiarato nullo”. Se il soggetto che ha manifestato una volontà valida si oppone “si deve applicare il principio di ordine pubblico della protezione del suo affidamento nella validità del vincolo” e non dare ingresso alla sentenza canonica. Se, invece, la parte che ha manifestato una volontà valida non si oppone o addirittura richiede la delibazione della sentenza di nullità basata sull’intentio contra bona matrimonii dell’altra parte, la pronuncia canonica non viola in concreto l’ordine pubblico e potrà quindi essere riconosciuta agli effetti civili [26]. Ne deriva che in molti casi di nullità per riserva mentale, probabilmente la maggioranza, le sentenze di nullità sono state regolarmente riconosciute agli effetti civili.

La situazione che abbiamo ora sinteticamente descritto denota un pieno rispetto dell’autonomia della Chiesa nell’esercizio della sua funzione giudiziaria sul matrimonio. Le regole processuali ed il regime sostanziale previsti dal diritto canonico possono essere seguiti senza che vi sia necessità di apportarvi sostanziali restrizioni od adattamenti al fine di ottenere il riconoscimento delle sentenze nell’ordinamento giuridico dello stato. E va ritenuto che questa situazione è perfettamente coerente con lo spirito che ha animato la pattuizione concordataria in questa materia. Il fatto che lo Stato abbia accettato di attribuire effetti civili alle sentenze ecclesiastiche dimostra infatti che esso le ha ritenute in linea di principio compatibili con il proprio ordinamento, dimostra – come è stato bene osservato – “un’apertura dell’ordinamento ai ‘valori’ espressi dall’ordinamento canonico”. Questa apertura sarebbe “irrimediabilmente frustrata se si ritenessero contrarie all’ordine pubblico italiano le sentenze ecclesiastiche di nullità matrimoniale per la mera ragione che esse siano pronunciate sulla base di cause di nullità non assimilabili a quelle contemplate a fini analoghi dall’ordinamento italiano”[27].

Il controllo che l’autorità statale si è riservata non può quindi riguardare profili che caratterizzano il regime matrimoniale canonico (che lo Stato non poteva non avere presenti al momento della pattuizione), ma soltanto ipotesi eccezionali, difficilmente prevedibili, per lo più confliggenti con principi di carattere più generale rispetto allo specifico settore del diritto matrimoniale. I principi di ordine pubblico – come già osservava uno dei più autorevoli studiosi del diritto matrimoniale concordatario, noncerto sospettabile di acquiescenza alle indicazioni della Chiesa – non possono essere desunti dalle norme del codice civile sull’invalidità del matrimonio, ma per la loro individuazione occorre rifarsi ai “principi di fondo dell’ordinamento riguardanti la tutela di valori quali la personalità umana, la libertà religiosa e simili”. Altrimenti l’ordine pubblico opererebbe quale limite “normale” e non, come dovrebbe, “eccezionale” all’apertura dell’ordinamento statale[28]

La correttezza con cui la giurisprudenza ha dato attuazione alle pattuizioni concordatarie in materia matrimoniale ha trovato un’ulteriore conferma nella riforma del diritto internazionale privato che nel frattempo era intervenuta nell’ordinamento italiano (legge 31 maggio 1995, n. 218). Nell’ambito di questa riforma, la disciplina sul riconoscimento delle sentenze straniere è stata ampiamente liberalizzata, tanto da rendere questo riconoscimento in linea di massima automatico, senza alcun preventivo controllo dell’autorità giudiziaria. Soltanto in caso di mancata ottemperanza o di contestazione della sentenza si deve ricorrere al procedimento di delibazione. E’ rimasto il tradizionale limite dell’ordine pubblico, ma nel nuovo contesto di maggiore apertura verso gli ordinamenti stranieri, esso non può che essere inteso ancor più come limite assolutamente eccezionale e con più diretto riferimento (come prevede espressamente la nuova legge) agli effetti prodotti dalla sentenza e non al suo contenuto sostanziale[29].

 

5) La svolta innovativa delle Sezioni unite della Cassazione.

 

Nessuno quindi poteva prevedere che il quadro ora descritto sarebbe stato sconvolto da un intervento delle Sezioni unite della Corte di Cassazione, attuato con la ormai famigerata sentenza del 18 luglio 2008 n. 19809, intervento che va ben al di là del caso in questione (che di per sé non avrebbe neppure richiesto il deferimento alle Sezioni unite), assumendo volutamente connotati magisteriali, destinati ad operare più estesamente su tutto il regime della delibazione delle sentenze ecclesiastiche[30].

Viene così, innanzitutto, ridisegnato il parametro di riferimento costituito dai principi dell’ordine pubblico. La sentenza ritiene che il riferimento non debba essere all’ordine pubblico internazionale, inteso nel senso che abbiamo prima indicato, ma all’ordine pubblico interno, ossia ad un concetto che presuppone un più diretto riferimento ai singoli istituti dell’ordinamento in cui deve essere inserita la sentenza. Nell’ambito di questi istituti occorre pur sempre far riferimento a valori irrinunciabili “costitutivi della stessa identità dell’ordinamento interno”. Non si tratta però di “un insieme di valori generici e indistinti”, ma di un insieme di valori identificanti il “sistema interno, che, per ciascun istituto, fa emergere gli elementi essenziali e irrinunciabili della sua regolamentazione in Italia il cui superamento è vietato, perché lesivo dei caratteri qualificanti e della stessa identità giuridica di ogni singola fattispecie su cui incide la sentenza da delibare”.

Per rintracciare siffatti “valori costitutivi della stessa identità dell’ordinamento interno”, la sentenza si addentra in una minuziosissima analisi del regime dei vizi del consenso previsti dall’ordinamento italiano. Alla base di questo regime essa ritiene di individuare un principio fondamentale, quello per cui i vizi “possono risultare solo da circostanze esterne e oggettive” e non da “circostanze riguardanti la coscienza del singolo, la sfera etica o il cosiddetto foro interno”. Vi è in Italia – afferma la sentenza – una regolamentazione restrittiva dei vizi del consenso, rilevando solo la violenza e l’errore nei limiti dell’art. 122 c.c.; tali vizi rilevano se risultano da cause esterne e oggettive, non potendo quelle interne o soggettive avere rilievo per un atto solenne come il matrimonio”.

Nel caso del dolo, che si risolve in un errore su una qualità del contraente e quindi in un vizio conosciuto anche nella normativa civile (art. 122), il riconoscimento nell’ordinamento italiano potrà avvenire “solo se sia consistito in una falsa rappresentazione della realtà, che abbia avuto ad oggetto circostanze oggettive, incidenti su connotati stabili e permanenti, qualificanti la persona dell’altro nubendo”, ossia “se gli artifizi e raggiri d’una parte abbiano determinato errori con i caratteri oggettivi, che l’assimilano a quelli rilevanti nel nostro sistema, sempre che tale natura emerga dai fatti accertati dalla pronuncia ecclesiastica, eventualmente rivalutata nel giudizio di delibazione”.

La sentenza ritiene quindi corrette le precedenti pronunce della stessa Corte di Cassazione che avevano ammesso alla delibazione ipotesi di nullità per errore su anomalie psichiche del contraente o sulla sua qualifica di laureato: ma afferma che “nessun rilievo può darsi all’infedeltà prematrimoniale e all’errore eventuale su di essa”, trattandosi di un fatto temporaneo e, per di più, apprezzabile soltanto sulla base di istanze etiche particolarmente avvertite nell’ordinamento canonico, ma senza alcun riscontro nell’ordinamento civile (che, infatti, non impone, prima del matrimonio, alcun obbligo alla fedeltà)[31].

Non è quindi una particolare figura di vizio di consenso che viene ritenuta incompatibile con l’ordinamento italiano (come quella che veniva in considerazione nel caso concreto, ossia il dolo, che non è previsto come vizio autonomo nell’ordinamento matrimoniale italiano), ma un particolarissimo, e per di più non ben definibile, profilo del regime civilistico dei vizi del consenso. Ed è indubbiamente significativo rilevare, per apprezzare il fondamento della decisione della Corte, che tale profilo non risulta essere mai stato individuato prima d’ora dalla giurisprudenza o dalla dottrina.

Non è il caso di dilungarsi su una puntuale critica a questa sentenza, sullo stile oscuro ed involuto con cui essa si esprime, sulle contraddizioni in cui cade tra dichiarazioni di principio ed applicazioni concrete, sugli impossibili compromessi che cerca di instaurare tra la giurisprudenza consolidata (che le stesse Sezioni unite avevano contribuito in modo determinante a formare) ed il nuovo corso che intende avviare.

Quello che merita osservare, in coerenza con la prospettiva che abbiamo adottato in questa nostra esposizione, è che l’analisi che essa compie si traduce in un’evidente invasione nel merito di quanto deciso dal tribunale ecclesiastico e quindi in una violazione dell’autonomia della Chiesa nell’esercizio della sua funzione giudiziaria. Ed è inevitabile che scendendo a valutare la concreta configurazione del capo dinullità posto a base della sentenza canonica, i giudici italiani finiscano per travisare il contenuto sostanziale di tale decisione, come nel nostro caso è puntualmente avvenuto. Non era infatti un singolo episodio di infedeltà che costituiva l’oggetto del dolo (come assumono i giudici della Cassazione), ma la qualitas di donna infedele ed inaffidabile rivelata da tale episodio e pertanto non un fatto esteriore ed estemporaneo, ma – per usare ancora le parole della sentenza – un insieme di “circostanze oggettive, incidenti su connotati stabili e permanenti, qualificanti la persona dell’altro nubendo”: ossia un tipo di errore che trova riscontro nel regime civilistico di questo vizio del consenso.

 

6) Convivenza coniugale e delibazione. Il problema del regime economico della nullità.

 

Come si è accennato, la sentenza delle Sezioni unite che stiamo esaminando non intende limitarsi a dare direttive per il caso di specie, ma si propone di rivisitare più ampiamente il regime della delibazione delle sentenze ecclesiastiche. Oltre a tracciare alcuni concetti di carattere generale – quello di ordine pubblico, quello di incompatibilità assoluta o relativa con tale ordine[32] – essa pone le basi per una diversa considerazione di un punto specifico di rilevante importanza: quello della convivenza coniugale precedente alla dichiarazione di nullità

La sentenza ha sottolineato lo “speciale rilievo del ‘rapporto’ coniugale, che, nato dall’atto, incide conla suarealizzazione tipica costituita dalla convivenza ocoabitazione spessoperuncerto periodo di tempo, come fattoconvalidantela volontàespressaall’attodellacelebrazioneeostativo,per l’ordine pubblico italiano, a far rilevare l’invalidità del consenso del matrimonio in sede giurisdizionale”. Il matrimonio rapporto è quindi assunto “a valore cogente,perlo strettonessotraessoeilmatrimonioatto,sancitonella Costituzione (art. 29).

Non appare quindi condivisibile, continua la sentenza, la tesi che non ravvisa alcun contrasto con l’ordine pubblico in “quelle delle pronunce di annullamento canonico intervenute dopo molti annidiconvivenzaocoabitazionedeiconiugi,ritenendo l’impedimento a chiedere l’annullamento di cui sopra mera condizione diazionabilità, da considerare esterna e irrilevante come ostacolo d’ordine pubblico alla delibazione”.

Queste indicazioni non hanno tardato ad essere recepite dalle Corti d’appello e dalla stessa Corte di Cassazione. Riguardo a quest’ultima, una recente pronuncia (20 gennaio 2011, n. 1343), largamente pubblicizzata dagli organi di stampa, ha ritenuto che “la successiva prolungata convivenza è considerata espressiva di una volontà di accettazione del rapporto che ne è seguito e con questa volontà è incompatibile il successivo esercizio della facoltà di rimetterlo in discussione, altrimenti riconosciuta dalla legge”. E’ stata così respinta la richiesta di delibazione di una sentenza di nullità per esclusione della generazione della prole da parte della moglie, dopo una convivenza ventennale tra i coniugi.

L’orientamento che abbiamo ora delineato, tanto più se avrà, come è probabile, ulteriori sviluppi, comporta indubbiamente una forte restrizione al riconoscimento civile delle sentenze ecclesiastiche di nullità. Certamente, la Chiesa rimane libera di amministrare la giustizia in questo delicato settore nei modi e secondo principi e regole che ritiene preferibili. Ma rimane indubbiamente penalizzata nella sua aspettativa, fondata su un preciso impegno concordatario, di ottenere il riconoscimento civile del prodotto di questa sua attività. In effetti, alla luce delle considerazioni che abbiamo svolto precedentemente, è da ritenere che questo nuovo orientamento non sia conforme allo spirito dell’accordo concordatario e non costituisca una corretta attuazione degli impegni assunti dallo Stato italiano con tale accordo. Vi sarebbero quindi gli estremi per un’attivazione, da parte della Santa sede, dei canali diplomatici idonei a prospettare questa situazione al governo italiano. In seguito, la questione potrebbe essere deferita alla Commissione paritetica prevista dallo stesso accordo, allorché dovessero sorgere “difficoltà di interpretazione o di applicazione” delle disposizioni in esso contenute (art. 14).

Vi è, in tal senso, un significativo precedente riguardante le disposizioni sul riconoscimento degli enti ecclesiastici In seguito all’affermazione di una giurisprudenza del Consiglio di Stato che comportava una forte limitazione all’autonomia della Chiesa nell’organizzazione interna di tali enti, fu convocata la Commissione paritetica prevista dalla citata disposizione e fu messo a punto un documento (datato 24 febbraio 1997) contenente una serie di indicazioni che avrebbero dovuto essere seguite nell’interpretazione e nell’applicazione delle disposizioni concordatarie. Tale documento fu poi oggetto di uno scambio di note tra la Santa Sede e l’Italia ed impegna quindi ambedue le parti all’osservanza di esso, come una sorta di interpretazione autentica della normativa concordataria[33].

Un tale auspicabile momento di comune riflessione sull’attuazione di questo importante settore della disciplina concordataria potrebbe dare l’occasione per intervenire su un altro punto cruciale di questa materia, che già ho avuto occasione di segnalare all’inizio di questo mio intervento: quello del regime economico conseguente alla dichiarazione di nullità di matrimonio[34]. Questo regime, che può risultare fortemente penalizzante per la parte più debole e bisognosa del rapporto coniugale, interferisce in modo fortemente negativo sia sull’attività giudiziaria svolta dei tribunali ecclesiastici, sia sul riconoscimento civile delle sentenze da questi emanate. Da un lato, infatti, viene incentivato un uso strumentale della giustizia ecclesiastica, che porta ad introdurre cause con ben scarso fondamento e ad adottare condotte processuali ben poco rispettose delle esigenze della verità. Dall’altro, i giudici civili sono indotti a forzare l’interpretazione delle disposizioni legislative in modo da salvaguardare, per quanto possibile, il diritto della parte più esposta a contraccolpi negativi sulla propria situazione personale.

Questo sforzo interpretativo è chiaramente avvenuto in materia di rapporto tra divorzio e nullità del matrimonio. Qui la Corte di Cassazione, rivedendo anche in questo caso un suo precedente indirizzo (certamente più conforme alla lettera delle disposizioni legislative), ha stabilito che le clausole economiche contenute in una sentenza di divorzio passata in giudicato rimangono ferme, senza subire alcuna modificazione, anche di fronte ad una successiva pronuncia di delibazionedi una sentenza ecclesiastica di nullità di matrimonio[35].

Ma c’è da ritenere che anche alla base di questo nuovo indirizzo in tema di delibazione avviato dall’ultima sentenza del luglio 2008 delle Sezioni unite vi sia la preoccupazione di non dare ingresso nell’ordinamento italiano a sentenze che potrebbero comportare un’ingiusta penalizzazione del coniuge più debole ed economicamente sprovveduto. Non è certo un caso che il rifiuto all’attribuzione di effetti civili stia riguardando proprio quelle vicende nelle quali una lunga convivenza rende più pressante l’esigenza di salvaguardare la posizione economica di tale soggetto.

Non tocca certo alla Chiesa interferire nella legislazione italiana riguardante il regime economico conseguente alla dichiarazione di nullità di matrimonio, né tale regime può costituire propriamente materia di eventuali pattuizioni in via concordataria. Ma una qualche segnalazione o “dichiarazione di interesse” da parte ecclesiastica potrebbe forse propiziare un intervento legislativo che, pur non incidendo direttamente sulla disciplina del riconoscimento delle sentenze ecclesiastiche, ne eliminerebbe, almeno in gran parte, l’aspetto contenzioso, facendo venir meno l’interesse di una delle parti a fare opposizione. E ciò a tutto vantaggio di una giustizia ecclesiastica che davvero operi per rispondere ad esigenze che promanano dalla coscienza e dal sentire religioso di ciascun fedele.

 

 

 

 

 

 


[1] La sentenza è stata largamente commentata, in particolare da L. Musselli, Libertà di giurisdizione della Chiesa e poteri del giudice penale in materia probatoria, in Cass. Penale, 2005, 1619 ss.; M. CANONICO, Sulla sindacabilità penale delle dichiarazioni rese nel giudizio ecclesiastico di nullità matrimoniale, in Dir. fam. 2005, 943 ss.; A. LICASTRO, Ancora in tema di segreto professionale del “giudice” ecclesiastico (osservazioni a Cass. Pen., Sez. V, sent. 12 marzo 2004, n. 22827), in Quaderni dir. pol. eccl., 2004/3, 793 ss. Ampi riferimenti a questa sentenza si trovano anche in G. BONI, Giurisdizione matrimoniale ecclesiastica e poteri autoritativi della magistratura italiana, in Sovranità della Chiesa e giurisdizione dello Stato, a cura di G. Dalla Torre e P. Lillo, Torino, 2008, 99 ss.

 

[2] Ritorneremo più avanti su queste recenti pronunce della Suprema Corte.

[3] Anche questa sentenza è stata ampiamente commentata . Si vedano, tra gli altri, M. FINOCCHIARO, Il nostro paese non può recepire una sentenza raggiunta senza assicurare i diritti delle parti, in Guida al diritto, 2001, 98 ss.; J. LLOBELL, Il diritto all’equo processo. Note a proposito di una recente sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo riguardante la delibazione civile della dichiarazione di nullità del matrimonio ex processo documentale canonico, in Ius Ecclesiae, 2001, 871 ss.; R. BOTTA, La «delibazione» delle sentenze ecclesiastiche di nullità matrimoniale di fronte alla Corte europea dei diritti dell’uomo, in Corriere giuridico, 2002, 167 ss. AA. VV., Il principio del contraddittorio tra l’ordinamento della Chiesa e gli ordinamenti statali, Padova, 2003.

[4] Sulle ragioni che stanno alla base del regime matrimoniale concordatario si veda P. MONETA, Matrimonio religiosoe ordinamento civile, 3 ed., Torino, 2002, 19 ss.

[5] Le citazioni sono tratte dalla sentenza 11 aprile 1989 n. 203, rimasta fondamentale in materia e ripresa in molte altre successive sentenze della stessa Corte.

[6] Lezioni di diritto ecclesiastico, 5 ed., Milano 1979, 121-122.

[7] Per ampie indicazioni sulla dottrina penalistica favorevole ad un’interpretazione dell’art 51 estesa anche a diritti e doveri previsti in altri ordinamenti rimandiamo a G. BONI, Giurisdizione matrimoniale, cit.,152. Ulteriori argomentazioni a favore di tale interpretazione si possono leggere anche in N. BARTONE, Processo canonico e diritto penale italiano. Autorità giudiziale ecclesiastica e Autorità giudiziale statale. Competenza e controllo penale: incomprensioni e soluzioni, in Matrimonio canonico e ordinamento civile, Città del Vaticano, 2008,95 ss., nonché, sia pure da un angolo visuale diverso (quale scriminante dal reato di cui all’art. 622 c.p.), in D. MILANI, Segreto, libertà religiosa e autonomia confessionale, La protezione delle comunicazioni tra ministro di culto e fedele, Lugano, 2008, 132 ss.

[8] Si tratta delle decisionidel pretore di Notaresco, 30 settembre 1969 e del Pretore di Roma, 23 febbraio 1970 e 21 aprile 1970, pubblicate in Dir. eccl., 1971, II, 161 ss. con nota di commento di G. MANTUANO, “Libertas convicii” davanti ai tribunali ecclesiastici e diritto penale dello Stato.

[9] Cass. 3 maggio 2001, n. 27656, in Dir. eccl, 2001, II, p. 242 ss. , a conferma di App. Palermo, 5 novembre 1999, ivi, 2000, II, 383 ss. Su questa vicenda giudiziariasi vedaS. BORDONALI,Memoria difensiva (profili ecclesiastici) nella causa penale per favoreggiamento personale aggravato contro un sacerdote, in Dir. eccl., II, 2001, 242 ss.

[10] Merita di essere menzionata anche un’altra causa di non punibilità, di più ridotta portata, prevista dal diritto italiano, quella riguardante “Le offese contenute negli scritti presentati o nei discorsi pronunciati dalle parti o dai loro patrocinatori nei procedimenti dinanzi all’Autorità giudiziaria, ovvero dinanzi a un’Autorità amministrativa, quando le offese concernono l’ oggetto della causa o del ricorso amministrativo” (art. 598 c.p.). Anche in questo caso si può ritenere che l’operatività di questa disposizione non valga per i soli procedimenti dinanzi alle autorità italiane, ma anche per quelli dinnanzi ai tribunali ecclesiastici. In tal senso si veda S. TESTA BAPPENHEIM, In utroque iure: i tribunali ecclesiastici e l’esimente ex art. 598 C.P., in Diritto e religioni, 2008, a cui rinvio per ulteriori indicazioni bibliografiche e per la segnalazione di un recente caso giudiziario (dinnanzi al Giudice di pace circondariale di Bologna) in cui tale disposizione è stata ritenuta applicabile anche ai giudizi ecclesiastici.Su quest’ultimo caso si veda anche la breve nota di L. PERSICO, L’esimente ex art. 598 C.P. si applica anche agli scritti ed ai discorsi diretti ai tribunali ecclesiastici?, in Dir. fam., 2005,863 ss.

 

 

[11] Insiste su questo profilo, con ampia argomentazione, A. LICASTRO, I ministri di culto nell’ordinamento giuridico italiano, Milano, 2005, 556 ss.

[12] D. MILANI, Segreto, libertà religiosa e autonomia confessionale,cit., 171. Nello stesso senso G. CASUSCELLI, Il caso del “calciatore pentito” ed il segreto confessionale, in Quaderni dir. pol. eccl, 2001, 1024, ritiene che la valutazione del giudice, che non può invadere l’ambito dell’ordine proprio della Chiesa, “deve limitarsi alla ricognizione di eventuali dati esteriori che escludano ragionevolmente che colui che si è rivolto ad un ecclesiasticoabbia inteso contemplare nella sua sfera volitiva quello specifico status, e che l’ecclesiastico abbia inteso esercitare una funzione evangelizzatrice”.

[13] La natura ministeriale della giustizia ecclesiastica, con la sua intrinseca finalizzazione alla salus animarum, è stata costantemente riaffermata dal Magistero pontificio, sino a Benedetto XVI (si veda, da ultimo, il discorso alla Rota Romana del 29 gennaio 2009)

[14] Sul punto ampie indicazioni si trovano inA. LICASTRO, I ministri di culto, cit., 512 e ss.

[15] A. LICASTRO, I ministri di culto, cit., 520. Concorda con questa impostazione, aggiungendovi ulteriori argomentazioni a supporto, G. BONI, Giurisdizione matrimoniale ecclesiastica, cit., 89 ss.

[16] L’applicabilità dell’art. 195, 6° c.p.p. è sostenuta da A. LICASTRO, Ancora in tema di segreto professionale del “giudice” ecclesiastico, cit., 808-809 e da G. BONI, Giurisdizione matrimoniale ecclesiastica, cit., 99 ss.

 

[17] Cass., 12 aprile 1984, n. 2357.

[18] Si vedano, tra le numerose sentenze, Cass., 12 aprile 1984, n. 2357; 3 maggio 1984, n. 2688; 16 ottobre 1985, n. 5077; 12 novembre 1985, n. 5527; 24 luglio 1987, n. 6444; 28 novembre 1987, n. 8851; 11 febbraio 2008, n. 3186. Si è così ritenuto che non possa assumere rilievo il fatto che la causa ecclesiastica sia stata inoltrata presso un tribunale territorialmente competente in base a criteri previsti soltanto dal diritto canonico (come quello del luogo dove risiede la maggior parte dei testimoni) che potrebbero, in astratto, rendere difficile l’esercizio del diritto di difesa da parte del convenuto; o il fatto che il diritto canonico non preveda la partecipazione del difensore all’esecuzione della perizia giudiziaria o consenta alla parte di stare in giudizio senza l’assistenza tecnica di un difensore; o, ancora, che il diritto canonico preveda termini per l’impugnazione della sentenza eccessivamente ristretti o che consenta di modificare (con una nuova concordanza del dubbio) l’originaria domanda di nullità.

 

[19] Cass., 11 maggio 1994, n. 4605; 11 giugno 1997, n. 5243.

[20] Cass., 9 dicembre 1993, n. 12144; 7 aprile 2000, n. 4387; 23 nov. 2007, n.24412.

[21] Cass., 26 maggio 1987, n.4707.

[22] Cass., 21 gennaio 1985, n. 192. Sullo stesso argomento si veda, più recentemente, Cass., 12 luglio 2002, n. 10143, dove si ribadisce che “non acquista rilievo, ai fini della delibazione, la circostanza che i coniugi abbiano convissuto successivamente alla celebrazione del matrimonio”, nonostante questa circostanza renda improponibile l’azione di impugnazione del matrimonio per simulazione, a norma dell’art. 123 cod. civ. Quest’ultima disposizione infatti, come rileva ancora la sentenza, “non si configura come espressione di principi e regole fondamentali con i quali la Costituzione e le leggi dello Stato delineano l’istituto del matrimonio”. Anche a proposito della legittimazione all’azione di nullità non è stata ritenuta contraria all’ordine pubblico la circostanza che la nullità per amentia di uno dei coniugi fosse stata dichiarata su istanza dell’altro coniuge, contrariamente al disposto dell’art. 120 c. c. che attribuisce la legittimazione ad impugnare il matrimonio per incapacità naturale soltanto al coniuge che si fosse trovato in tale situazione al momento della celebrazione. In tal senso Cass., 24 luglio 1987, n. 6444; 5 novembre 1987, n. 8151; 25 novembre 1988, n. 6331.

[23] Cass. 18 giugno 1987, n. 5354 e n. 5358; 3 luglio 1987, n. 5823; 14 gennaio 1988, n. 192.

[24] Cass. , Sez. un., 20 luglio 1988, n. 4700, 4701, 4702, 4703.

[25] Moltissime sono le sentenze della Cassazione che hanno riaffermato questo principio. Va anche rilevato che questo stesso principio, originariamente applicato alle dichiarazioni di nullità per simulazione, tende ad allargarsi e ad essere applicato, per lo meno nell’orientamento di alcune Corti d’Appello, ad altre ipotesi di nullità, come il defectus discretionis iudicii o l’incapacitas onera coniugalia assumendi di cui al can. 1095 c. i. c. La delibazione è stata, ad esempio, rifiutata quando l’affezione psichica da cui è risultato affetto uno dei due coniugi non era stata conosciuta o non risultava conoscibile con la comune diligenza dall’altro coniuge. Per alcune pronunce in tal senso, relative alle Corti d’Appello di Venezia e di Firenze, v. La giurisprudenza delle Corti d’Appello italiane in materia di delibazione delle sentenze ecclesiastiche di nullità matrimoniale,in Matrimonio canonico e ordinamento civile, Città del Vaticano, 2008, 183 e 200.

[26]Cass., Sez. un., 6 dicembre 1985, n. 6128 e molte altre successive sentenze.

[27]R. BOTTA, L’inutile concordato, in Giur. it., 1988, I, 1, 225 ss.

[28] F. FINOCCHIARO, Buona fede e principi d’ordine pubblico nella delibazione delle sentenze ecclesiastiche, citato da R. BOTTA, op.cit.

[29] La legge n. 218/1995 prevede infatti che la sentenza straniera è riconosciuta in Italia quando “le sue disposizioni non producono effetti contrari all’ordine pubblico italiano” (art. 64, g), mentre la disposizione precedente (art. 797 c.p.c.) prevedeva che non potesse essere delibata la sentenza che “contiene disposizioni contrarie all’ordine pubblico italiano”.

[30] In commento a questa sentenza si vedaM. CANONICO, Sentenze ecclesiastiche ed ordine pubblico: l’ultimo vulnus inferto al concordato dalle Sezioni unite, in Dir. fam., 2008, 1895 ss.; E. GUARNIERI, Sulla delibabilità delle sentenze ecclesiastiche di nullità di matrimonio per errore indotto da dolo, in Dir. fam., 2010, 21 ss.; N. BARTONE, Pronunciato incostituzionale sulla (in)delibabilità ecclesiastica della Corte di Cassazione Sezioni Unite Civili, in www.statoechiese.it; F. ALICINO, L’altra ‘faccia’ della specificità del matrimonio canonico (a proposito di Cassazione, Sez. un., 18 luglio 2008, n. 19809), in www.statoechiese.it;

[31] La menzogna della sposa, anche se attuata per carpire il consenso, precisa ancora la sentenza che stiamo esaminando, “ha dato luogo ad un errore riguardante una condotta temporanea di infedeltà prematrimoniale dell’altro nubendo, nel rapporto di fatto precedente l’atto di matrimonio, nel quale la regola è quella della libertà e non è previsto un obbligo di fedeltà, che sorge dal matrimonio e rileva in sede di separazione, per un eventuale addebito”. “L’errore sulla fedeltà della fidanzata – continua la sentenza – che, nel caso, la bugia di questa ha determinato, non può avere la rilevanza oggettiva che lo rende essenziale ai sensi dell’ordine pubblico interno e, anche se avesse determinato al matrimonio il ricorrente, non costituisce vizio del consenso rilevante nel nostro sistema, non riguardando un fatto assimilabile a quelli oggettivi e tipici sopra indicati” (ossia quelli elencati nell’art. 122 c.c.)

[32] La pronunciadistingue le incompatibilità delle sentenze di cui si chiede l’esecutività in Italia con l’ordine pubblico interno in “assolute” e “relative”.“La incompatibilità con l’ordine pubblico interno delle sentenze di altri ordinamenti è ‘assoluta’, allorché i fatti a base della disciplina applicata nella pronuncia di cui è chiesta la esecutività e nelle statuizioni di questa, anche in rapporto alla causa petendi della domanda accolta, non sono in alcun modo assimilabili a quelli che in astratto potrebbero avere rilievo o effetti analoghi in Italia. L’incompatibilità conl’ordine pubblico interno va qualificata invece come
‘relativa’, quando le statuizioni della sentenza ecclesiastica, eventualmente con la integrazione o il concorso di fatti emergenti dal riesame di essa ad opera del giudice della delibazione, pure se si tratti di circostanze ritenute irrilevanti per la decisione canonica, possano fare individuare una fattispecie almeno assimilabile a quelle interne con effetti simili. Impediscono l’esecutività in Italia della sentenza ‘ecclesiastica’ solo le incompatibilità assolute, potendosi superare quelle relative, per il peculiare rilievo che lo Stato italiano si è impegnato con la Santa Sede a dare a tali pronunce”.

 

[33] Il documento si può leggere in Codice di diritto ecclesiastico, a cura di P. Moneta, 9 ediz., Piacenza, 2010, 107 sss.

[34] Riguardo atale regime ci limitiamo a ricordare che il diritto civile italiano stabilisce un disciplina specifica conseguente alla dichiarazione di nullità del matrimonio, quando si verificano le condizioni per la sussistenza del matrimonio putativo, ossia quando il matrimonio risulta celebrato in buona fede senza la consapevolezza del vizio che ne produceva la nullità. Tale regime è contenuto negli artt. 129 e 129 bis del codice civile e prevede che il giudice possa disporre a carico di uno dei coniugi l’obbligo di corrispondere somme periodiche di denaro, in proporzione delle sue sostanze, a favore dell’altro, ove questi non abbia adeguati redditi propri e non sia passato a nuove nozze. La corresponsione è limitata ad un periodo non superiore a tre anni. E’ inoltre previsto il pagamento di una congrua indennità (che deve comunque comprendere una somma corrispondente al mantenimento per tre anni) a carico del coniuge, od eventualmente del terzo, al quale sia imputabile la nullità del matrimonio, oltre all’obbligo alimentare in caso di mancanza di altri obbligati. Questo regime si applica integralmente anche alla dichiarazione di nullità pronunciata dai tribunali ecclesiastici nei confronti dei matrimoni concordatari, una volta che la relativa sentenza sia stata riconosciuta efficace anche nell’ordinamento civile.

L’ordinamento civile italiano prevede un regime giuridico diverso da quello ora descritto nel caso di divorzio, ossia quando vi è stata una pronuncia di scioglimento di un matrimonio civile o di cessazione degli effetti civili di un matrimonio concordatario. Tale regime è, in linea di massima, più favorevole al coniuge economicamente più debole. Esso prevede infatti che il coniuge che non sia in condizioni di mantenersi con le proprie forze possa beneficiare di un assegno periodico a carico dell’altro, che può protrarsi (purché non passi a nuove nozze) anche per tutta la vita, se continuano a sussistere le condizioni economiche che ne giustifichino la corresponsione. A favore del titolare di tale assegno è anche prevista una percentuale dell’indennità di fine rapporto di lavoro eventualmente percepita dall’ex coniuge e, dopo la morte di questi, una quota dell’eventuale pensione di reversibilità (vedi la legge 1 dicembre 1970, n. 898, successivamente modificata con la legge 6 marzo 1987, n. 74). Per più ampie indicazioni rimandiamo al contributo di A. GALIZIA contenuto in P. MONETA, Il matrimonio nullo. Diritto civile, canonico e concordatario, Piacenza, 2005, p. 35 ss. od anche a P. MONETA, Il matrimonio nullo nel diritto canonico e concordatario, Bari, 2008, 208 ss.

 

 

[35] Questo indirizzo più favorevole al coniuge più debole è stato inaugurato da Cass. 18 aprile 1997, n. 3345, ribadito, con più ampia argomentazione, da Cass. 23 marzo 2001, n. 4202 e confermato da altre successive sentenze, tanto da potersi ormai considerare pienamente consolidato.