Alcune considerazioni sulla dignità cardinalizia

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Alcune considerazioni sulla dignità cardinalizia
Scritto destinato alla Raccolta di Studi in omaggio di Mons. J.I. Arrieta  in occasione del suo 70° compleanno.

(Paolo Moneta)


1) Recenti avvenimenti che hanno coinvolto alcuni cardinali di Santa Romana Chiesa, con  larga eco nei mezzi di comunicazione[1], inducono a riflettere su alcuni aspetti di questa particolare figura di dignitario ecclesiastico. L’origine storica del cardinalato è nota, come note sono le principali prerogative che tale carica comporta. Esse possono ridursi essenzialmente a due: partecipare all’elezione del pontefice, svolgere un’attività di aiuto e sussidio nei suoi confronti per il governo della Chiesa universale[2]. Qualche riflessione in più merita invece lo stato personale di questi ecclesiastici, verificare meglio cosa significhi il cardinalato in termini di qualificazione personale, di prerogativa strettamente collegata alla persona che ne è titolare. Sorgono così alcune domande alle quali cercheremo di rispondere, sia pure nel limitato spazio di un contributo destinato ad onorare la figura di un illustre canonista che si è lungamente, e con grande profitto, dedicato allo studio dell’organizzazione dell’attività di governo della Chiesa.

Quale punto di partenza per questa nostra riflessione dobbiamo cercare di precisare come venga individuata e denominata, sulla base delle disposizioni legislative, questa particolare qualificazione di cui vengono insigniti alcuni fedeli che si sono in vario modo distinti nell’ambito della comunità ecclesiale.

Da alcune di queste disposizioni si ricava che il cardinalato è una dignità. È questo il termine che viene usato del can. 351 § 3 del Codex, a proposito della disciplina del tradizionale istituto della riserva in pectore: “Promotus ad cardinalitiam dignitatem, cuius creationem Romanus Pontifex annuntiaverit, nomen autem in pectore sibi reservans…” Lo stesso termine ricorre in un’altra disposizione legislativa, l’art. 36 della costituzione Universi Dominici gregis, promulgata da Giovanni Paolo II il 22 febbraio 1996,contenente un’ampia  e, per molti aspetti, nuova regolamentazione dell’elezione del papa. In essa si dispone che non hanno diritto di eleggere il pontefice “Cardinales canonice depositi aut qui, consentiente Romano Pontifice, dignitaticardinalitiae renuntiaverunt”. Sempre in questo testo legislativo, all’art. 79, ritroviamo il termine dignitasper rafforzare una delle tante proibizioni che accompagnano l’elezione pontificia: “prohibemus, ne quis, quamvis Cardinalatus dignitatepraeditus, vivente Romano Pontifice eoque inconsulto, deliberare audeat de ipsius Successoris electione….”[3]. In senso più generico, senza un diretto riferimento al cardinalato, il termine che stiamo considerando compare anche in altre disposizioni del Codex: nel can. 1331 § 2, n.4 e 5, dove si prevede che il reo colpito da una scomunica inflitta o dichiarata “nequit valide consequi dignitatem, officium aliudve munus in Ecclesia” e che “fructusdignitatis, officii, muneris cuiuslibet, pensionis, quam quidem habeat in Ecclesia, non facit suos”[4].

Sulla base di queste indicazioni possiamo dunque affermare che il cardinalato è una dignità(dignitas, in latino). Questo termine assume per altro diversi significati, anche nell’ambito dell’ordinamento canonico e, più in particolare, nello stesso Codex iuris canonici. La sua etimologia richiama “ciò che fa degno”, che rende  meritevole, e può quindi essere inteso come “nobiltà morale che deriva all’uomo dalla sua natura, dalle sue qualità” (Dizionario Garzanti), “considerazione e rispetto che l’uomo merita per se stesso o per le proprie condizioni” (Dizionario Marzullo). In questa accezione lo troviamo usato nei can. 208, 212 § 3, sugli obblighi e diritti dei fedeli; nel can. 768, sui contenuti della dottrina professata dal magistero della Chiesa; nel can. 1134, riguardante la dignità dello stato coniugale. In un significato traslato, ma anch’esso di uso comune, il termine  dignitàfa riferimento al grado, ufficio elevato, carica onorifica. Ma in tal caso il termine viene di solito accompagnato da una più precisa specificazione: si parla così di dignità episcopale(can. 481 § 2) o, come nelle disposizioni legislative prima ricordate, di dignità cardinalizia.

In un significato ancora più particolare troviamo il nostro termine riferito al sacramento del matrimonio: “matrimoniale foedus a Christo Domino ad sacramenti dignitateminter baptizatos evectum est” (can. 1055); “Error circa matrimonii unitatem vel indissolubilitatem aut sacramentalem dignitatem”….. (can. 1099). Qui il termine dignità(usato anche nella traduzione italiana) viene assunto nell’accezione di valore di particolare levatura, di arricchimento morale e spirituale.

 Questo riferimento al sacramento non deve, per altro, in alcun modo indurre a pensare che la dignità cardinalizia possa essere considerata come una caratterizzazione di natura spirituale, equiparabile a quel carattere che segna indelebilmente colui che riceve determinati sacramenti. E’ quanto avviene per il battesimo che “segna il cristiano con un sigillo spirituale indelebile (‘carattere’) della sua appartenenza a Cristo”; per la confermazione, che  “imprime nell’anima un marchio spirituale indelebile, il ‘carattere’”; per l’ordine sacro “che conferisce anch’esso un carattere spirituale indelebile”[5]. Come ben si comprende, la dignità cardinalizia, per quanto elevata di grado la si voglia intendere, non può essere ricondotta all’ambito sacramentale e produrre effetti che sono strettamente riservati alla grazia dispensata dal sacramento.

Va però ricordato che in virtù di un motu proprio di Giovanni XXIII  Cum gravisima del 15 aprile 1962, recepito anche dal Codex(can. 351 § 1), tutti i cardinali devono essere insigniti della consacrazione episcopale. Ciò significa che alla dignità cardinalizia si riconnette una speciale caratterizzazione che inserisce la persona del cardinale nell’ambito sacramentale. Tale caratterizzazione, in  quanto ultimo stadio del sacramento della sacra ordinazione, comporta l’acquisizione di un carattere spirituale indelebile. Ma esso rimane autonomo rispetto alla dignità cardinalizia, non viene a confondersi e a riassorbirsi in essa. Tant’è vero che la nomina a cardinale e la consacrazione a vescovo non avviene mai contestualmente, ma con atti, procedure e cerimonie liturgiche separate. Perlopiù il cardinalato viene assegnato a chi è già vescovo. Ma coloro che non lo sono vengono prima nominati cardinali e successivamente consacrati vescovi, con la speciale cerimonia liturgica prevista per il conferimento di quest’ultimo stadio dell’ordine sacro. Conferma quanto stiamo dicendo il fatto che talora il pontefice ha accettato la richiesta di non ricevere la consacrazione episcopale avanzata da alcuni cardinali (sia pure ultraottantenni). Si può menzionare, da ultimo, il caso del Predicatore della Casa pontificia, il cappuccino Raniero Cantalamessa. Pur indossando la porpora, egli ha chiesto e ottenuto dal Papa la dispensa dall’ordinazione episcopale: “Voglio morire con il mio abito francescano – ha dichiarato – cosa che difficilmente mi avrebbero permesso se fossi stato vescovo”.

Ma oltre ad essere consacrati vescovi, i cardinali sono abitualmente preposti alla direzione dei dicasteri della Curia romana (espletando in tal modo più direttamente la loro funzione di ausilio al pontefice) o investiti, come vescovi diocesani, del governo di una Chiesa particolare. In alcuni casi la titolarità di questi uffici è riservata a chi è insignito della dignità cardinalizia: come avviene ad esempio per la carica di Segretario di Stato, per la direzione dei più importanti dicasteri della Curia romana (come la Congregazione per la dottrina della fede o quella per l’Evangelizzazione dei popoli), per il governo della diocesi di Roma a nome del pontefice (affidato ad un  Cardinale vicario) o per altre sedi episcopali tradizionalmente considerate cardinalizie, ossia abitualmente ricoperte da un cardinale (tradizione che, per altro, l’attuale pontefice non sembra sempre rispettare).

Un ufficio, sia pur del tutto speciale, può essere considerato anche quello di concorrere, come membro del corpo elettorale, all’elezione del papa. Tale ufficio presuppone inderogabilmente la dignità cardinalizia, è a beneficio  soltanto di coloro che ne sono insigniti. Ma anche in questo caso non vi è una sovrapposizione od assorbimento rispetto alla dignità cardinalizia. Tant’è vero che ci sono cardinali, ossia soggetti in possesso della dignità cardinalizia – ed in numero sempre più cospicuo, tanto da arrivare ormai a quasi la metà di tutti i cardinali – che non hanno diritto di partecipare all’elezione pontificia: sono quelli che hanno compiuto gli ottant’anni di età.

 

2) Ma vediamo di chiarire meglio il rapporto che intercorre tra dignità cardinalizia ed ufficio che ad essa si accompagna. Cominciamo dall’ultimo a cui abbiamo fatto cenno, quello riguardante l’elezione del pontefice, che è anche quello che viene più ampiamente e minuziosamente regolamentato.

Sino a qualche decennio or sono il diritto a prendere parte all’elezione pontificia era considerato un diritto nativo inerente al cardinalato. Colui che veniva creato cardinale acquistava automaticamente e necessariamente il diritto di entrare in conclave per concorrere all’elezione del papa. Fu Paolo VI, nel 1970, con la costituzione Ingravescentem aetatem, a scindere questi due aspetti – la dignità cardinalizia e la qualifica di elettore –  stabilendo che soltanto i cardinali con meno di ottant’anni potessero far parte del corpo elettorale.

Il provvedimento di Paolo VI – a parte le accese rimostranze di coloro che avevano compiuto ottant’anni, che si vedevano privati di un diritto che a buon diritto poteva essere considerato legittimamente acquisito – poteva in effetti suscitare non poche perplessità, perché incideva su una situazione giuridica che vantava un’antichissima tradizione. Ma la suprema potestà del pontefice trova un limite soltanto nei principi e nelle regole riconducibili al diritto divino. Ed oggi nessuno sosterrebbe che il cardinalato, anche nella sua più tipica ed esclusiva prerogativa (quella di eleggere il pontefice), rientri nell’ambito di questo diritto. Legittimamente quindi il pontefice può regolamentare questo istituto in ogni suo aspetto, anche in quello, pur di prevalente importanza, attinente all’elezione del papa.

Va però ancora una volta ribadito che la privazione del diritto elettivo non incide sul presupposto di tale diritto, costituito dalla dignità cardinalizia. La stessa costituzione di Paolo VI, che abbiamo ora ricordato, prevedeva infatti espressamente che i cardinali ultraottantenni: “Membra manent Sacri Collegii, ad ceteros omnes effectus quod attinet, et cuncta cetera iura et praerogativas cum Cardinalis officio coniuncta retinent, non excepta facultate participandi generales vel particulares Congregationes, quas, Sede Apostolica vacante, ante Conclavis initium haberi contingit” (art.V). Va osservato che il termine officium  (“Cardinalis officio coniuncta”), al quale, secondo questa disposizione, si ricollega una serie di diritti e prerogative connesse al cardinalato, corrisponde a quello che abbiamo ritenuto più propriamente di designare come dignitas.

Numerosi sono i diritti e le prerogative spettanti ai cardinali in quanto tali, anche se non più elettori, in considerazione della loro qualificazione personale. Il Codexriporta la disposizione secondo la quale “i Cardinali che si trovano fuori dall’Urbe e fuori della propria diocesi sono esenti dalla potestà di governo del Vescovo della diocesi in cui dimorano in tutto ciò che riguarda la propria persona” (can. 357 § 2). Significativo è anche il diritto che hanno i cardinali di ricevere ovunque le confessioni dei fedeli (can. 967 § 1).

 Un quadro più ampio dei diritti riconosciuti ai cardinali è contenuto nell’ Elenco dei privilegi e facoltà in materia liturgica e canonica dei Cardinali di S.R.E., redatto dalla Segreteria di Stato in data 18 marzo 1999[6]. A titolo d’esempio si possono menzionare il diritto di concedere e lucrare, a certe condizioni, le indulgenze; di costituire per sé una cappella privata che rimane del tutto esente dalla giurisdizione dell’ordinario del luogo, con il privilegio di riservare in essa la Santissima Eucaristia. I cardinali godono, ancora, della facoltà, consultato il vescovo del luogo, di dedicare e benedire le chiese, gli altari e le suppellettili sacre; del diritto di predicare ovunque la parola di Dio; di conferire gli ordini del diaconato e del presbiterato, ed anche altri ministeri, in tutte le chiese ed oratori. Già abbiamo menzionato il diritto di ascoltare le confessioni, possiamo aggiungere che  essi godono della facoltà ordinaria di assolvere dovunque nel foro interno sacramentale qualunque penitente dalle censure latae sententiaedi scomunica o interdetto non dichiarate, anche quelle riservate alla Sede Apostolica.

Va ancora rilevato che i cardinali ultraottantenni conservano il titolo al quale sono stati assegnati, sia esso episcopale, presbiterale o diaconale, anche se va ricordato che non hanno su di esso “alcuna potestà di governo, e per nessuna ragione interferiscano in ciò che riguarda l’amministrazione dei beni, la disciplina o il servizio delle chiese” (can. 357 § 1). Nessuna preclusione è prevista per accedere alla carica di Decano del collegio cardinalizio, con tutte le incombenze e le prerogative che ad essa si ricollegano. Se però  ha compiuto gli ottant’anni il Decano non potrà continuare ad esercitare le sue funzioni nell’ambito del conclave, al quale non ha più diritto di partecipare.

Passando a considerare il rapporto tra cardinalato (inteso come dignità cardinalizia) ed ufficio curiale od episcopale di cui il cardinale è abitualmente titolare, un punto che possiamo affermare con sicurezza è questo: esiste una qualificazione personale che, sulla scorta di alcune disposizioni legislative, può essere denominata come dignità cardinalizia. Questa qualificazione è il presupposto, talora necessario ed esclusivo, richiesto per assumere determinati incarichi od uffici nell’ambito dell’organizzazione ecclesiale. Ma proprio in quanto presupposto, conserva una sua autonomia rispetto alla titolarità di tali incarichi od uffici. Quest’ultimi sono spesso oggetto di specifiche disposizioni normative, di provvedimenti disciplinari e penali, che non incidono sulla qualificazione personale costituita dalla dignitascardinalizia. Queste nostre conclusioni trovano conferma in una recente normativa introdotta da Papa Francesco, sulla quale ci soffermeremo tra poco.

 

3) Ora dobbiamo però verificare se è possibile una soppressione della stessa dignità cardinalizia ed eventualmente in quali forme e con quali strumenti giuridici essa può essere attuata. Per compiere siffatta verifica dobbiamo tornare a considerare la prerogativa che è più strettamente collegata al cardinalato: quella di partecipare all’elezione del pontefice. Già abbiamo visto che tale prerogativa viene ad essere esclusa nei confronti dei cardinali che hanno raggiunto una determinata età. Ma questa limitazione non fa venir meno la stessa dignità cardinalizia e lascia sussistere una serie di diritti e doveri che ad essa si ricollega. Resta ora da vedere se sia possibile operare sulla stessa dignitàfacendola venir meno, se sia cioè possibile far cadere lo stesso presupposto su cui si innestano i molteplici diritti spettanti ai cardinali. A tal fine dobbiamo tornare alla disposizione da cui siamo partiti, quella dell’art. 36 della costituzione Universi Dominici gregis.

In tale normativa si ribadisce che colui che ha regolarmente ricevuto la nomina a cardinale (cosa che si verifica quando sia stato creato e pubblicato in concistoro) ha per ciò stesso (“hac ipsa de causa”) il diritto di eleggere il pontefice. Si tratta di un diritto che spetta unicamente (“exclusive pertinet”) ai cardinali, purché non abbiano ancora compiuto gli ottant’anni. Esso gode di un speciale garanzia, tanto da non poter essere in  alcun modo  scalfito o compromesso: “Cardinalis elector nulla ratione vel causaa Summi Pontificis electione activa et passiva excludi potest” (art. 35). Nella precedente legislazione riguardante l’elezione del pontefice si faceva più esplicito riferimento ad eventuali censure adottate nei confronti del cardinale, ossia alla scomunica, alla sospensione e all’interdetto. Queste sanzioni avrebbero dovuto considerarsi sospese agli effetti dell’elezione. Ma già la salvaguardia del diritto elettorale era estesa a qualunque altro impedimento ecclesiastico[7]. La disciplina ora vigente rende ancor più ampia e generalizzata (“nulla ratione vel causa”  “per nessun motivo o pretesto” nella, inappropriata, versione italiana) l’area di rispetto di tale gelosa ed esclusiva prerogativa.

Ma pur nel contesto di tale rafforzata garanzia, lo stesso art. 36 prevede espressamente  che vi siano dei cardinali privati di tale diritto: “ Non tamen hoc iure fruuntur Cardinales canonice depositi aut qui, consentiente Romano Pontifice, dignitati cardinalitia renuntiaverunt”[8]. Sulla base di quanto abbiamo precedentemente argomentato, la perdita del diritto elettorale non può che essere strettamente connessa dalla soppressione della dignità cardinalizia. In ordine a quest’ultima, si delineano quindi due vie, sulle quali occorre ora soffermarsi: la deposizione canonica e la rinuncia.

Riguardo alla rinuncia, è naturale che si preveda la possibilità di far venir meno, da parte del suo titolare, una qualifica strettamente personale, che incide fortemente sulla situazione ecclesiale e giuridico-canonica di chi la possiede. Del resto, come abbiamo già visto, la dignità cardinalizia non comporta quella caratterizzazione spirituale che è propria di determinati sacramenti. Essa non imprime un carattere indelebile, tale da non consentire alcun tipo di rinuncia o revoca, neppure da parte di chi li riceve. È quindi applicabile la normativa generale che prevede la possibilità di rinuncia all’ufficio ecclesiastico da parte di chiunque sia “sui compos” (cann. 187 – 190). E’ pertanto ipso iure  nulla la rinuncia “fatta per timore grave, ingiustamente incusso, per dolo o per errore sostanziale oppure con simonia” (can.188). La rinuncia deve in ogni caso essere “fatta all’autorità alla quale appartiene la provvisione  dell’ufficio (can. 189 § 1). Nel nostro caso, la rinuncia alla dignità cardinalizia deve necessariamente essere fatta al romano pontefice, l’unica autorità a cui va ricondotto il cardinalato, e si configura come ricettizia, ossia che necessita di accettazione da parte di detta autorità (“consentiente Romano Pontifice”). Va indubbiamente tenuta presente anche la regola che prescrive all’autorità di non accettare una rinuncia “non fondata su una causa giusta e proporzionata” (can. 189). Ma poiché PrimaSedes a nemine iudicaturnon vi sarà nessun organo od autorità che potrà verificare l’effettiva sussistenza di questo requisito. Data la particolare natura dell’autorità pontificia e del rapporto che intercorre tra di essa e i cardinali, non può invece ritenersi applicabile la regola che subordina l’accettazione della rinuncia al termine di tre mesi, trascorsi i quali essa è priva di ogni valore (can. 189 § 3).

 

4) Più complessa e problematica è l’altra via che può condurre alla soppressione della stessa dignità cardinalizia: la deposizione canonica (“Cardinales canonice depositi” – art. 36 Universi Dominici gregis). Occorre quindi cercare di definire come vada inteso il termine “canonice”. Esso non può che far riferimento all’osservanza dei principi, delle regole e delle procedure previste dal diritto canonico per un provvedimento di particolare importanza qual è la deposizione di un cardinale, provvedimento che comporta la soppressione della stessa dignità cardinalizia.

La prima disposizione legislativa che viene in considerazione è quella di cui al canone 1405 che riserva al pontefice il giudizio sulle vertenze riguardanti i cardinali: “Ipsius Romani Pontificis dumtaxat ius est iudicandi….Cardinales”. La materia oggetto di questo giudizio – come precisa ancora lo stesso canone – è ampia e coincide con quella che la Chiesa ritiene rientrare nella propria competenza, ossia “le cause che riguardano cose spirituali o annesse alle spirituali” e “la violazione delle leggi ecclesiastiche e tutto ciò in cui vi è  ragione di peccato, per quanto concerne lo stabilirne la colpa ed infliggere pene ecclesiastiche” (can. 1401). Questa riserva di giurisdizione è ulteriormente rafforzata dalla regola che considera comeassolutal’incompetenza di qualunque altro giudice e, più in generale,  che considera come non fatti atti e decisioni compiute in violazione del tradizionale disposto Prima Sedes a nemine iudicatur(can. 1406). Si conferma così un principio che emerge con chiarezza da tutta la disciplina giuridica riguardante il  cardinalato: quello della diretta ed esclusiva sottoposizione alla potestà pontificia.

Tenendo ben fermo questo principio, occorre ora verificare se nella legislazione pontificia vi sono disposizioni che ne disciplinano la sua applicazione, prevedendo regole, procedure, adempimenti riguardanti più specificamente la deposizione dei cardinali. Nulla di questo è dato rinvenire nelCodex, né nella legislazione riguardante l’elezione del Pontefice (Universi Dominici gregis) o gli organi centrali della Chiesa (Pastor bonus).

Ma le cose sembrano cambiate con il pontificato di Francesco. Egli sta dimostrando particolare interessamento alla situazione personale degli alti dignitari ecclesiastici. Più volte è intervenuto, a partire da un rescriptum ex audientiadel 3 novembre 2014, contenente disposizioni sulla rinuncia dei vescovi diocesani e dei titolari di uffici di nomina pontificia. La disciplina contenuta in questo rescritto è stata successivamente in parte modificata con il motu proprio Imparare a congedarsidel 12 febbraio 2018, con il quale si regola la rinuncia, a motivo dell’età, dei titolari di alcuni uffici di nomina pontificia, anche di carattere episcopale.

 Più in particolare si prevede che i vescovi diocesani ed eparchiali (e quanti sono ad essi equiparati dal diritto), al compimento dei settantacinque  anni di età, sono invitati a presentare al sommo pontefice la rinuncia al loro ufficio pastorale; che i capi dicastero della Curia romana non cardinali non cessano automaticamente dal loro ufficio al compimento dell’età prescritta (come prevedeva la precedente normativa, v. art. 5 della Pastor bonus), ma devono presentare anch’essi la rinuncia al sommo pontefice (art. 2). Per i capi dicastero insigniti della dignità cardinalizia rimane fermo quanto previsto dal citato rescritto, ossia che essi “sono ugualmente tenuti, al compimento del settantacinquesimo anno di età, a presentare la rinuncia al loro ufficio al Papa, il quale, ponderata ogni cosa, procederà” (art. 6). E’interessante rilevare che quest’ultimo disposto contiene una leggera variazione rispetto a quanto previsto dal Codice canonico e dalla Pastor bonus: i suddetti alti dignitari ecclesiastici erano infatti invitati (“rogantur” nell’originale latino) – e non, come ora si prevede, “tenuti” –  a presentare al Sommo Pontefice la rinuncia all’ufficio. Si tratta di una sfumatura (l’esortazione è diventata un obbligo) che non cambia la sostanza della prescrizione, ma che dimostra l’atteggiamento di fondo tenuto dall’attuale pontefice verso i cardinali.

Dall’insieme di queste disposizioni sembra infatti di poter dedurre che il Pontefice ha inteso uniformare – per lo meno in questo particolare aspetto della decadenza dall’ufficio curiale od episcopale a ragione dell’età – la situazione giuridica dei cardinali e di coloro che non lo sono. Il possesso della dignità cardinalizia non sembra quindi più giustificare un trattamento preferenziale rispetto a coloro che non sono cardinali.

L’esigenza di predisporre strumenti idonei a contrastare il rovinoso diffondersi di episodi di pedofilia o comunque di reati a sfondo sessuale ha indotto il pontefice a intervenire più pesantemente con un altro motu proprio, Come una madre amorevole, del 4 giugno 2016. Questo provvedimento prende direttamente in considerazione la situazione del vescovo diocesano che ha tenuto comportamenti meritevoli di condanna: si prevede così che il vescovo possa essere “legittimamente rimosso dal suo incarico, se abbia, per negligenza, provocato un danno grave ad altri”. Occorre però che egli abbia “oggettivamente mancato in maniera molto grave alla diligenza che gli è richiesta dal suo ufficio pastorale, anche senza grave colpa morale da parte sua”. Nel caso si tratti di abusi sessuali su minori o su adulti vulnerabili “è sufficiente che la mancanza di diligenza sia grave” (art. 2). In tutti i casi nei quali appaiano seri indizi di quanto sopra previsto – prevede ancora il motu proprio – la competente congregazione della Curia romana potrà iniziare un’indagine di merito. Si avvia così un procedimento nell’ambito del quale sarà dato al Vescovo la possibilità di difendersi con i mezzi previsti dal diritto (art.2 e 3). Se, esaurito il procedimento, la Congregazione ritiene opportuna la rimozione del Vescovo, potrà dare, nel più breve tempo possibile, il decreto di rimozione oppure “esortare fraternamente il Vescovo a presentare la sua rinuncia in un termine di 15 giorni”, trascorsi i quali la Congregazione potrà emettere il decreto di rimozione (art. 4). La decisione della Congregazione, conclude il motu proprio, “deve essere sottoposta all’approvazione specifica del Romano Pontefice, il Quale, prima di assumere una decisione definitiva, si farà assistere da un apposito Collegio di giuristi, all’uopo designati” (art. 5).

Nel motu proprio non c’è alcun riferimento al cardinalato, ossia al fatto che il vescovo incriminato ed eventualmente colpito da un decreto di rimozione dal suo ufficio sia anche cardinale. Il fatto che sia stato abolito – come abbiamo ora visto – ogni trattamento preferenziale nei confronti dei cardinali sembra far emergere, da parte del pontefice, la volontà di non tener conto di tale qualificazione personale, assoggettando anche i cardinali alla disciplina comune prevista per i titolari di uno dei suddetti uffici.

E’ vero che per i cardinali vige il principio – poc’anzi richiamato – della loro esclusiva sottoposizione alla giurisdizione del Romano Pontefice. Ma questo principio sarebbe salvaguardato dalla disposizione finale del motu proprio che esige di sottoporre la decisione della Congregazione all’approvazione specifica del Romano Pontefice. Approvazione non certo formale o meramente rituale, perché si stabilisce che il Pontefice, prima di assumere una decisione definitiva, si faccia assistere da un apposito collegio di giuristi.

Questa conclusione risulta esplicitamente confermata da un successivo, più ampio, motu proprio Vosestis lux mundi, emanato il 7 maggio 2019, anch’esso originato dall’esigenza di scongiurare i crimini di abuso sessuale, che “offendono Nostro Signore, causano danni fisici, psicologici e spirituali alle vittime e ledono la comunità dei fedeli”. Vi è quindi una responsabilità della Chiesa che “in maniera più stringente riguarda i successori degli Apostoli”, ma che “concerne tutti coloro che in diversi modi assumono ministeri nella Chiesa, professano i consigli evangelici o sono chiamati a servire il Popolo cristiano. Pertanto, è bene che siano adottate a livello universale procedure volte a prevenire e contrastare questi crimini che tradiscono la fiducia dei fedeli”.

Il motu proprio si applica in caso di segnalazioni relative a chierici o a membri di Istituti di vita consacrata o di Società di vita apostolica e concernenti vari delitti contro il sesto comandamento del Decalogo od anche condotte consistenti in azioni od omissioni dirette a interferire o ad eludere le indagini civili o le indagini canoniche, amministrative o penali. Esso contiene un ampio articolato di norme procedurali che riguardano le condotte poste in essere da chierici che, in vario modo, hanno avuto incarichi direttivi di natura pastorale, primi tra tutti: “Cardinali, Patriarchi, Vescovi e Legati del Romano Pontefice” (art. 6).

Si conferma così la volontà del papa di non tener in alcun modo conto dell’eventuale qualificazione cardinalizia  di cui è insignito il chierico accusato di crimini a sfondo sessuale. Quello che viene in considerazione è il possesso di un ufficio che comporti la guida pastorale di una comunità, con la conseguente specifica responsabilità. Il fatto che il chierico titolare di questo ufficio sia anche cardinale non comporta l’esenzione da alcune disposizioni o l’applicazione di un qualche trattamento differenziato.  Certamente tale qualifica potrà indurre ad adottare determinate procedure o particolari accorgimenti nell’ambito di quelli previsti dal motu proprio. Così la congregazione competente (stabilita in base al soggetto coinvolto nel delitto), potrà ritenere opportuno adottare specifiche determinazioni: ad esempio non affidando l’indagine al metropolita, come è di norma previsto, ma a persona diversa (v. art.11) o impartendo opportune istruzioni che tengano conto della dignità cardinalizia rivestita dall’indagato. Ma sempre operando nell’ambito di una normativa procedurale che, in linea di principio, non dà alcun rilievo al fatto che la persona incriminata sia un  cardinale.

Il Vosestis lux mundisi conclude prevedendo che il dicastero competente, una volta compiuta l’istruttoria, possa adottare “successivi provvedimenti”, procedendo “a norma del diritto secondo quanto previsto per il caso specifico” (art. 18). Non vi è invece alcun accenno (neppure un  qualche richiamo) alla decisione finale. Ciò significa che rimangono ferme le disposizioni previste dal precedente motu proprioCome una madre amorevole, sulle quali ci siamo già soffermati.

La normativa che abbiamo succintamente richiamato si applica dunque anche ai cardinali. Ma a ben guardare essa non riguarda direttamente la loro persona, non li prende in considerazione in quanto dotati di una loro particolare dignità. Quello che il pontefice ha voluto regolamentare e trattare con particolare severità è la situazione di coloro che “hanno la responsabilità di una Chiesa particolare” (Come una madre amorevole, preambolo). La determinazione che conclude la procedura prevista in tale normativa – il decreto di rimozione – riguarda direttamente l’ufficio pastorale da essi ricoperto. È quindi la privazione di questo ufficio che colpisce il chierico, indipendentemente dalla qualifica personale che egli possieda. Il cardinale, ad esempio, che sia vescovo diocesano si vedrà colpito in quanto titolare di questo ufficio, non in quanto cardinale. Il fatto che sia cardinale non lo esime dalla sottoposizione alle procedure previste per la rimozione dall’ufficio pastorale da esso ricoperto. Conferma questa impostazione il fatto che la normativa ora richiamata non riguarda i cardinali che non ricoprono un qualche ufficio di natura pastorale, con cura d’anime, nell’ambito di una comunità ecclesiale. I prefetti o i presidenti dei dicasteri della Curia romana – normalmente insigniti della dignità cardinalizia – non sono assoggettati alla suddetta normativa.

Possiamo giungere alla conclusione che la recente normativa stabilita da papa Francesco si applica ai cardinali in quanto essi siano titolari di un ufficio di natura pastorale ed è su questo ufficio che il decreto di rimozione produrrà i suoi effetti. Rimane invece  impregiudicata la qualifica personale da essi posseduta, ossia la loro dignità cardinalizia.

Certamente, la rimozione da un ufficio di grande rilievo – come ad esempio il governo di una importante arcidiocesi considerata tradizionalmente cardinalizia – difficilmente non potrà non accompagnarsi anche alla deposizione dal cardinalato. Ma quest’ultimo provvedimento ha una sua autonomia, non è necessariamente ricompreso nel decreto di rimozione dall’ufficio, deve quindi essere esplicitamente adottato. Del resto non è irrealistico pensare che sia opportuno – per il bene della comunità ecclesiale e per la stessa persona del chierico deposto – che un vescovo cardinale sia rimosso dall’ufficio pastorale da lui ricoperto, ma che per la natura del crimine da lui commesso, per il suo profilo umano ed ecclesiale, sia ritenuto meritevole di conservare la dignità cardinalizia e, con essa, il diritto che più di ogni altro vi è strettamente collegato, quello di eleggere il pontefice.

 

5) Al termine di questa lunga digressione sulla recente normativa introdotta da papa Francesco, dobbiamo quindi rilevare che non esiste una procedura canonica espressamente prevista per rimuovere dalla dignità cardinalizia, per rendere i cardinali “canonice depositi”, come prevede il più volte citato art. 36 Universi Dominici gregis.

L’unico principio che dovrà essere osservato non può che essere quello che abbiamo richiamato all’inizio: l’esclusiva giurisdizione sui cardinali in capo al romano pontefice. Soltanto questa suprema autorità potrà deporre canonicei cardinali. Ad essa saranno interamente rimesse le modalità e le procedure da adottare nei singoli casi, allorquando egli ritenga di dover disporre un provvedimento di eccezionale gravità come va indubbiamente considerato quello che colpisce il chierico in una delle sue più intense ed esclusive qualificazioni personali. Tanto più che esse gli sono state conferite in quanto distintosi in modo eminente “doctrina, moribus, pietate necnon rerum agendarum prudentia” (can 351 § 1).

Ma la via più comunemente seguita per privare un cardinale della specifica dignità da cui è insignito rimane indubbiamente quella della rinuncia consentiente Romano Pontifice.Vi sono in tal senso vari precedenti nella storia della Chiesa: quello del cardinale Marino Carafa di Belvedere, che nel 1807, a 44 anni restituì la berretta purpurea per potersi sposare e dare una discendenza alla casata; del cardinale Carlo Odescalchi, che nel 1838 lasciò il cardinalato per entrare nella Compagnia di Gesù; del cardinale Louis Billot, gesuita francese, che nel 1928, per contestare l’operato di Pio XI nei confronti  dell’Action française,  gli comunicò la sua “rinuncia pura e semplice alla dignità cardinalizia e relativi privilegi”. Rinuncia che fu regolarmente accettata dal Papa[9].

Sempre con una rinuncia si sono conclusi anche i casi più recenti ai quali accennavamo all’inizio. Possiamo così ricordare la vicenda del cardinale scozzese Patrick O’Brien, arcivescovo di Edimburgo. Accusato di aver coperto abusi su minori, egli aveva presentato le dimissioni da Arcivescovo di Edimburgo e nel febbraio 2013 tali dimissioni erano state accettate dal Pontefice. La decadenza dall’ufficio episcopale non incideva però sulla sua qualifica di cardinale. Egli conservava integra la dignità cardinalizia e, con essa, il diritto di partecipare al conclave per l’elezione del nuovo pontefice. Il conclave fu tenuto nell’aprile 2005, ma fu egli stesso che preferì astenersi dal parteciparvi. Successivamente, il 20 marzo 2015, un Comunicato stampa del Decano del Collegio Cardinalizio dava la seguente informazione: “Il Santo Padre ha accettato la rinuncia ai diritti e alle prerogative del cardinalato, espresse nei canoni 349, 353 e 356 del Codice di Diritto Canonico, presentata, al termine di un lungo itinerario di preghiera, da Sua Eminenza il signor Cardinale Keith Michael Patrick O’Brien, Arcivescovo emerito di Saint Andrews and Edinburgh. Con questo provvedimento, Sua Santità manifesta a tutti fedeli della Chiesa in Scozia la sua sollecitudine pastorale e li incoraggia a continuare con fiducia il cammino di rinnovamento e di riconciliazione”.

Come va inteso questo provvedimento ? In esso non si parla espressamente di rinuncia alla dignità cardinalizia, ma il riferimento a  tutti i diritti e le prerogative ad essa strettamente connessi  (richiamati anche con l’indicazione delle principali disposizioni delCodex) non può che comportare l’integrale soppressione di tale qualificazione personale.

Un altro caso che è interessante richiamare è quello del cardinale Theodore McCarrick, Arcivescovo di Washington, che è stato riconosciuto colpevole di  comportamenti contrari al sesto comandamento, anche con minori. Nel 2005, egli compì i 75 anni, ma gli fu prorogato di due anni l’incarico episcopale. Cominciavano però a circolare voci accusatorie nei suoi confronti, per cui egli fu invitato a dimettersi, con la raccomandazione, da parte dell’allora papa Benedetto XVI, di tenere un profilo più basso e di fare una vita più ritirata. Egli non ottemperò a tali indicazioni e poiché nel frattempo erano emerse altre più gravi accuse nei suoi confronti, egli presentò la rinuncia da membro del Collegio cardinalizio a papa Francesco, il quale, il 27 luglio 2018, “ne ha accettato le dimissioni da Cardinale ed ha disposto la sua sospensione dall’esercizio di qualsiasi ministero pubblico, insieme all’obbligo di restare in una casa che gli verrà indicata, per una vita di preghiera e di penitenza, fino a quando le accuse che gli vengono rivolte siano chiarite dal regolare processo canonico”. Ormai privato della dignità cardinalizia, è stato possibile instaurare nei suoi confronti un regolare processo canonico presso la Congregazione della dottrina della fede, conclusosi con un  decreto di dimissione dallo stato clericale[10]. Anche in questo caso, la via seguita per destituire un cardinale dalla sua specifica connotazione personale è stata quella della rinuncia o dimissioni accettate dal Santo Padre.

Ultimo caso di cui intendiamo occuparci è quello del cardinale Giovanni Angelo Becciu, un prelato che aveva ricoperto importanti incarichi nella diplomazia vaticana e nella Curia romana: è stato Sostituto per gli affari generali della Segreteria di Stato, assurgendo, da ultimo, alla carica di Prefetto della Congregazione delle cause dei Santi e, con essa, al cardinalato. Il 24 settembre 2020, al termine di una breve (e, com’è da immaginare, burrascosa) udienza con Papa Francesco, veniva ufficialmente comunicato dalla Santa Sede che “il Santo Padre ha accettato la rinuncia dalla carica di Prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi e dai diritti connessi al Cardinalato presentata da Sua Eminenza il Cardinale Giovanni Angelo Becciu”. Come si vede, diversamente dalle due precedenti vicende sulle quali ci siamo soffermati, l’accettazione del papa della rinuncia all’ufficio curiale da lui ricoperto e di quella al cardinalato è avvenuta contestualmente. Ma si tratta di due provvedimenti ben distinti ed autonomi l’uno dall’altro[11]. Per il secondo di essi, il riferimento ai “diritti connessi al Cardinalato”, non può che significare l’integrale privazione della dignità cardinalizia, non essendo concepibile che tale qualifica permanga anche in totale assenza dei diritti che le sono strettamente collegati. Egli non avrà quindi più il diritto di essere annoverato tra i cardinali elettori, di partecipare alle varie attività di aiuto e di supporto al romano pontefice, di godere delle numerose prerogative che, come abbiamo visto, sono riservate al cardinalato. Nei suoi confronti potrà essere avviato, ove se ne ravvisino i presupposti, un procedimento penale secondo le regole e con le garanzie procedurali valide per tutti i fedeli[12].

Come risulta anche dagli esempi ora richiamati, la via della rinuncia è dunque quella più comunemente utilizzata quando si intende disporre la privazione di incarichi o qualificazioni personali di grado particolarmente elevato. E non si tratta di una misura alla quale l’autorità preferisce ricorrere nei singoli casi, nell’ambito dei suoi poteri discrezionali, in considerazione della carità verso l’accusato, la sua buona fama, l’intento di evitare lo scandalo. Vi è una chiara indicazione legislativa che porta ad istituzionalizzare la rinuncia,  a prescrivere di ricorrere ad essa come la strada più idonea a far fronte a queste difficili e delicate vicende che vengono a coinvolgere i vertici della gerarchia ecclesiastica. Significative, a questo proposito, sono alcune disposizioni contenute nei più recenti documenti legislativi di papa Francesco, che già abbiamo avuto occasione di richiamare:  “In alcune circostanze particolari – si legge ad esempio nel rescriptum ex audientiadel 3 novembre 2014 – l’autorità competente può ritenere necessario chiedere a un Vescovo di presentare la rinuncia all’ufficio pastorale, dopo avergli fatto conoscere i motivi di tale richiesta ed ascoltate attentamente le sue ragioni, in fraterno dialogo”. Ancor più eloquente è la disposizione che prescrive la rinuncia come alternativa al decreto di rimozione: “Qualora ritenga opportuna la rimozione del Vescovo, la Congregazione stabilirà, in base alle circostanze del caso se: 1°. dare, nel più breve tempo possibile, il decreto di rimozione; 2°. esortare fraternamente il Vescovo a presentare la sua rinuncia in un termine di 15 giorni. Se il Vescovo non dà la sua risposta nel termine previsto, la Congregazione potrà emettere il decreto di rimozione” (Come una madre amorevole, art. 4).

Specialmente in quest’ultimo caso difficilmente si può ritenere che la rinuncia, così perentoriamente richiesta, costituisca un atto spontaneo o almeno sufficientemente libero, come essa dovrebbe essere. Una siffatta rinuncia, com’è stato bene osservato, si presta ad essere interpretata “come una specie raffinata di costrizione con la quale si cercherebbe di ottenere un fine ‘equivalente’ a quello della rimozione, sotto l’apparenza di una rinuncia volontaria da parte dello stesso soggetto che si è già deciso di rimuovere”. Senza contare che il ricorso alla rinuncia esime l’autorità dall’obbligo di fornire un decreto motivato, che chiarisca, anche pubblicamente, le ragioni poste alla base di un così grave provvedimento. In ogni caso, “si può con sicurezza affermare che un tale modo di procedere non permette di percepire con maggior chiarezza la diligenza, il rigore e la correttezza dell’attuazione dell’autorità competente di fronte a negligenze gravemente dannose”[13]. Alla fine una rimozione dall’ufficio – come ancora si ribadisce – “si prospetterebbe maggiormente secundum iusperché si emanerebbe un decreto comunque motivato che darebbe atto del compimento dei requisiti per la legittimità della sua attuazione: a beneficio del soggetto colpito ma pure a riprova della correttezza e dell’imparzialità dell’autorità ecclesiastica”[14].

Questi rilievi critici non sono certo da sottovalutare. Essi dovrebbero, perlomeno, evitare che si ricorra ad un uso troppo disinvolto della rinuncia, intendendola come una scorciatoia per conseguire l’intento al quale, sulla base dei dati acquisiti, si è ormai ritenuto di pervenire. Ma quando colui che è sotto accusa è un cardinale, quando emergono gli estremi per renderlo meritevole di essere colpito nel cuore stesso della sua dignità personale, non si può non tener conto dello “specialissimo vincolo con la Sede Apostolica che la porpora cardinalizia comporta” (art. 85 Universi Dominici gregis), non dimenticando che il pontefice è l’unica autorità che può giudicare e condannare un cardinale. Sollecitare una rinuncia, anziché emettere un freddo decreto di dismissione dalla dignità cardinalizia, può quindi significare che, nonostante il comportamento riprovevole di cui è ritenuto colpevole, si intende pur sempre mantenere quello spirito di comunione e, ancor più (come sta particolarmente a cuore a papa Francesco) di fratellanza, che deve caratterizzare, a qualunque livello, le relazioni interne alla comunità ecclesiale.

 

[1]Mi riferisco, in particolare, alle poco edificanti vicende che hanno coinvolto i cardinali Keith Michael Patrick O’Brien, Arcivescovo di Saint Andrews and Edinburgh; Theodore Edgar McCarrick, Arcivescovo di Washington, GiovanniAngelo Becciu, Prefetto della Congregazione delle cause dei Santi.Su di esse riprenderemo il discorso al termine di queste riflessioni.

[2]“I Cardinali di Santa Romana Chiesa costituiscono un Collegio peculiare cui spetta provvedere all’elezione del Romano Pontefice, a norma del diritto peculiare; inoltre i Cardinali assistono il Romano Pontefice sia agendo collegialmente quando sono convocati insieme per trattare le questioni di maggiore importanza, sia come singoli, cioè nei diversi uffici ricoperti prestandogli la loro opera nella cura soprattutto quotidiana della Chiesa universale” (can. 349 del Codex iuris canonici).

[3]Disposizioni analoghe si ritrovano anche nei precedenti testi legislativi che hanno regolamentato l’elezione del pontefice. Ma è interessante osservare che in esse viene usato il termine honor, con un significato in tutto equiparabile a quello didignitas. Così nella Costituzione apostolica Vacantis Apostolicae Sedisdell’8 dicembre 1945 Pio XII stabilice: “Item sub eadem poena excommunicationis latae sententiae prohibemus ne quis, etiamsi Cardinalatus honorefulgeat, vivente Romano Pontifice et eo inconsulto, tractare de ipsius Successoris electione…..” (n. 93). La medesima disposizione è ripresa anche nel successivo motu proprio di Giovanni XIII sull’elezione del Pontefice del 5 settembre 1962 (n. XVIII). L’aver sostituito, nella legislazione vigente, al termine honorquello di dignitascostituisce indubbiamente una conferma della maggiore appropriatezza che si è ritenuto di assegnare a quest’ultimo termine.

[4]Si può aggiungere che nel rito per la consegna dell’anello ai nuovi cardinali si dichiara che esso è segno di “dignità, di sollecitudine pastorale e di più salda comunione con la Sede di Pietro”. Traggo questa indicazione da J. I. Arrieta, Diritto dell’organizzazione ecclesiastica, Milano 1997, p. 288, nota 13.

[5]Catechismo della Chiesa cattolica, p. 334, n. 1272, p. 341, n. 1304, p. 406, n. 1582.

[6]Il documento si può leggere in J.I.Arrieta, Il sistema dell’organizzazione ecclesiastica. Norme e documenti, Roma 2000, p.65 – 67.

[7]La costituzione apostolicaRomano Pontifici eligendo(1 ottobre 1975)disponeva. “Nullus Cardinalis elector, cuiuslibet excommunicationis, suspensionis, interdicti aut alterius ecclesiastici impedimenti causa vel praetextu, a Summi Pontificis electione activa et passiva excludi ullo modo potest; quae quidem censurae, ad effectum huiusmodi electionis tantum, suspensae putandae sunt”(art. 35).

[8]Non si tratta di una disposizione innovativa, perché essa, sia pure con qualche modificazione letterale, era contenuta anche nelle precedente costituzioni che hanno regolamentato la materia: nellaRomano Pontifici eligendodi PaoloVI , nella Vacantis Apostolicae Sedisdi Pio XII e, ancor prima, nella Vacante Sede Apostolicadel 25 dicembre 1904 di Pio X.

[9]Ricavo questi esempi di rinuncia al cardinalato dallo storico A. Melloni,Il giallo della porpora di Becciu. Dalla sanzione dipende il conclave, in Domani, 14 ottobre 2020.

[10]Sul caso McCarrick è stato pubblicato dalla Santa Sede un ampio rapporto, sul quale riferisce F. Lombardi, Il rapporto McCarrick. Cercare la verità per convertirsi, in Civ. cat., 2/16 gennaio 2021, n. 4093.

[11]A conferma dall’autonomia dei due provvedimenti si può ricordare il caso di Philippe Barberin, Arcivescovo metropolita di Lione. Accusato di non aver denunciato alcuni abusi compiuti da sacerdoti della sua diocesi, egli presentò la rinuncia al governo pastorale. Assolto da ogni addebito in sede di appello, il 7 marzo 2020 il Pontefice  accettò tale rinuncia, ma non prese alcun provvedimento nei riguardi del cardinalato.

[12]E’ quindi da ritenersi non corretto che, nel sito internet della Santa Sede, Angelo Becciu figuri tra i cardinali non elettori, insieme ai cardinali ultraottantenni. E’ anche conservato il suo inserimento tra i cenni biografici dei singoli cardinali, ma alla fine di quello a lui dedicato compare la menzione della sua rinuncia ai diritti connessi al cardinalato. Ma come si è illustrato, avendo rinunciato a tutti i diritti connessi al cardinalato, egli è stato privato della stessa dignità cardinalizia e non può più essere considerato come cardinale, né conseguentemente annoverato tra i cardinali.

[13]J. Miras, Guión para algunas consideraciones en torno al motu proprio Come una madre amorevole. Riproduco, tradotto in italiano, quanto è riportato da G. Boni, La recente attività normativa ecclesiale: finis terraeper lo ius canonicum? Per una valorizzazione del ruolo del Pontificio Consiglio per i testi legislativi e della scienza giuridica nella Chiesa, Modena. 2021, p. 107, nt.113.

[14]G.Boni, La recente attività normativa ecclesiale, cit., p. 104 ss., che richiama analoghi orientamenti espressi da altri canonisti.