I matrimoni tra persone di diversa fede religiosa

19801

Prof. Paolo Moneta
Matrimoni e convivenze interconfessionali e internazionali

 

Convegno Unione Giuristi Cattolici

Messina 30 maggio 2014

 

 

1) I matrimoni di cui intendiamo occuparci vengono comunemente denominati matrimoni misti. Con tale termine si intende il matrimonio tra persone di diversa credenza religiosa, appartenenti a chiese o confessioni religiose diverse od anche il matrimonio tra una persona credente ed una persona estranea ad ogni credenza od appartenenza religiosa. Alla diversità sotto l'aspetto propriamente religioso si accompagna però abitualmente un'altra e talora più profonda diversità: quella che coinvolge l'etnia, la nazionalità, le tradizioni, tutto quel complesso di stili di vita, mentalità, formazione culturale che concorre a delineare l'identità di una persona e del gruppo sociale a cui appartiene.

Questa stretta connessione del fattore religioso con altri fattori è tanto più avvertibile nelle nostre società occidentali largamente e sempre più profondamente coinvolte in un processo di secolarizzazione. Processo che porta a relegare la religione in una sfera esclusivamente individuale ed in posizione marginale rispetto alla vita, agli interessi, al modo di pensare e di agire delle persone.

Tenendo presente questa avvertenza si deve constatare che il fenomeno dei matrimoni misti va assumendo in Italia una consistenza numerica in continua crescita, in relazione alla sempre più imponente ondata migratoria che sta interessando il nostro paese. È chiaro che la propensione al matrimonio misto aumenta quanto più cresce il numero degli immigrati che professano (come per lo più avviene) religioni diverse dalla religione cattolica. Come è stato osservato, il progressivo aumento dei matrimoni misti “conferma una tendenza in atto da oltre un decennio, in correlazione con la crescita della presenza straniera in Italia. Oltre al dato concernente l’aumento quantitativo degli immigrati residenti hanno giocato a favore diversi fattori, fra cui l’affievolirsi di alcuni pregiudizi di tipo culturale e religioso da parte della società italiana rispetto al fenomeno delle unioni miste; una più fluida interazione fra le giovani generazioni italiane e straniere, favorita dalla globalizzazione culturale e dai moderni mezzi di comunicazione; il contenimento dell’influenza familiare sulle scelte relazionali e matrimoniali dei coniugi ed anche, seppure in misura residuale – nonostante le ricorrenti enfatizzazioni mediatiche – una strategia d’integrazione sociale adottata dagli stranieri quale escamotage rispetto alla normativa vigente, al fine di ottenere la cittadinanza italiana” (Raffaele Callia, Matrimoni misti, famiglia e prospettive demografiche in Italia).

Ma è naturale che il numero di questi matrimoni aumenti quanto più gli immigrati tendono a risiedere stabilmente nel nostro territorio, ad inserirsi nella vita lavorativa, a partecipare alla vita sociale. I matrimoni misti sono quindi destinate a crescere quanto più cresce il processo di integrazione degli immigrati nella nostra società. D'altro canto il matrimonio costituisce uno dei più importanti e significativi motori dell'integrazione, quello che realizza nel vivo del rapporto coniugale una prima fondamentale cellula di unione tra persone di religione e cultura diverse.

In una società aperta, che non ha difficoltà ad accogliere nel suo seno modi di vita, tradizioni, valori ad essa estranei e diversi da quelli più comunemente conosciuti, il matrimonio misto può quindi essere visto in una luce positiva, come un momento privilegiato di dialogo, di interazione tra religioni e culture, favorendo un assetto armonico e pacifico in una società pur contraddistinta dal fenomeno del multiculturalismo. Ma questo modello di società è di difficile realizzazione. Più frequente è l'ipotesi di un atteggiamento di sfavore e di ripulsa nei confronti del matrimonio misto. Atteggiamento che non si limita all'aspetto personale del rapporto tra i due coniugi, che indubbiamente sì fa più difficile e maggiormente esposto al rischio di un fallimento. I coniugi infatti instaurano tra di loro una comunità che abbraccia ogni aspetto della vita personale di ciascuno di essi: un'affinità di fondo, una comune matrice culturale, la credenza religiosa condivisa favoriscono indubbiamente il costituirsi di tale intima comunità. Questa comunità sarà per contro tanto più di difficile realizzazione quanto più si renderà necessario colmare profonde e radicate differenze tra i due coniugi.

Ma non è soltanto l'aspetto personale che viene in considerazione, non si tratta soltanto della giusta preoccupazione di predisporre le condizioni migliori per rendere armonica e felice la vita coniugale. Il matrimonio misto è talora visto come un pericolo per la stessa vita comunitaria e pertanto come un qualcosa da evitare e scoraggiare, se non da proibire e contrastare.

2) Un siffatto atteggiamento si verifica spesso nelle comunità religiose, specialmente in quelle caratterizzate da due specifiche connotazioni. Da un lato, dal connotato dell’esclusività. La comunità si considera depositaria dell'unica fede, quella da essa professata, ritenendo incompatibile l'adesione ad una fede diversa. Caratterizzate, d'altro lato, da una stretta connessione che la religione presenta con l’etnia, la nazionalità, la specifica identità di una popolazione.

Emblematica a questo proposito è la religione ebraica, incentrata sulla fede in un unico Dio e nell’alleanza che questo stesso Dio ha stretto con un popolo da lui prescelto, il popolo d’Israele. Così intesa, la credenza in questo Dio viene a rinsaldare e a rendere definitiva l’identità di una popolazione che già si caratterizza per una specifica connotazione etnica. Tutto ciò che può mettere in pericolo la genuinità della fede si ripercuote inevitabilmente su questa stessa identità di popolo eletto da Dio. Si comprende quindi l’atteggiamento fortemente contrario del diritto ebraico ai matrimoni con persone estranee a questo popolo: “Quando il Signor tuo Dio ti avrà introdotto nel paese che vai a prendere in possesso e ne avrà scacciate davanti a te molte nazioni…non ti imparenterai con loro, non darai le tue figlie ai loro figli e non prenderai le loro figlie per i tuoi figli, perché allontanerebbero i tuoi figli dal seguire me, per farli servire a dei stranieri” (Deuteronomio 7, 1 ss.).

L’avversione ai matrimoni misti cresce e diventa ancor più radicale in quelle situazioni storiche in cui è messa in pericolo l'identità profonda della comunità ed occorre quindi riscoprire e rafforzare tutto ciò che consente di consolidare tale identità. Così, facendo sempre riferimento alla vicenda del popolo ebraico, nell'epoca del ritorno di questo popolo nella terra promessa dopo l'esilio babilonese, si assiste alla riscoperta e alla riaffermazione della legge data dal Signore, alla volontà di tener fede all'alleanza che esso ha stipulato con il suo popolo. Ed a questi cruciali momenti di rafforzamento dell’identità collettiva si accompagna una durissima riprovazione dei matrimoni misti, in particolare di quelli con donne straniere.

Abbiamo un esempio di questo atteggiamento nell’opera di restaurazione attuata (intorno alla seconda metà del 400 a.c.) da due importanti personaggi, ai quali sono dedicati due libri della Sacra Scrittura, Esdra e Neemia. Il secondo scrive: “In quei giorni vidi anche che alcuni Giudei si erano ammogliati con donne di Asdod, di Ammon e di Moab;  la metà dei loro figli parlava l’asdodeo, nessuno di loro sapeva parlare giudaico ma solo la lingua di un popolo o dell'altro. Io li rimproverai, li maledissi, ne picchiai alcuni, strappai loro i capelli e li fece giurare su Dio: ‘non darete le vostre figlie ai loro figli e non prenderete le loro figlie per i vostri figli o per voi stessi’” (Neemia 13, 23 -27).

Ancor più dura è la riprovazione dell’altro riformatore, Esdra. Gli viene riferito che: “‘Il popolo d'Israele, i sacerdoti e i leviti non si sono separati dalle popolazioni locali……….. ma hanno preso in moglie le loro figlie per sé e per i loro figli: così hanno mescolato la stirpe santa con le popolazioni locali’. All'udire questa parola, stracciai il mio vestito e il mio mantello, mi strappa i capelli del capo e la barba e mi sedetti costernato”.

Si raduna poi una grande assemblea degli Israeliti e “il popolo piangeva a dirotto”. Prende la parola uno dei capi, un certo Secania, rivolto ad Esdra: “Abbiamo prevaricato contro il nostro Dio, sposando donne straniere, prese dalle popolazioni del luogo. Ebbene, a questo riguardo c'è ancora una speranza per Israele. Facciamo dunque un patto con il nostro Dio, impegnandoci a rimandare tutte le donne e i figli nati da loro, secondo la volontà del mio signore e rispettando il comando del nostro Dio. Si farà secondo la legge !” Allora Esdra si alzò e fece giurare ai capi dei sacerdoti e dei leviti e a tutto Israele che avrebbero agito secondo quelle parole. Essi giurarono.

Viene così organizzato un esame di tutte queste situazioni che si protrae per molti giorni e che si conclude con la spietata determinazione di rimandare le donne e i loro figli da parte di tutti coloro che avevano sposato donne straniere.

3) Fortemente caratterizzata da un senso di esclusività è anche la religione islamica, considerata come l’unica vera religione alla quale si è obbligati ad aderire, ripudiando qualunque altra credenza, ed anch’essa fortemente connessa con gli altri fattori identitari di una popolazione. Nei paesi islamici vige ancor oggi la proibizione assoluta per le donne di sposare un uomo non musulmano. “Non date in matrimonio le vostre ragazze ai creatori di divinità fino a che essi non abbiano abbracciato la vera fede”, si legge nel Corano (2, 221). La posizione di inferiorità riservata alla donna la porterebbe infatti ad assoggettarsi ad un individuo di religione estranea, con inevitabile rinnegamento della propria appartenenza islamica. Anche l’educazione dei figli avverrebbe al di fuori di questa appartenenza, essendo i figli tenuti a seguire la religione paterna.

 La stessa posizione di superiorità dell’uomo sulla donna porta a mitigare l’avversione ai matrimoni misti da parte del musulmano, rendendo tollerabile che egli sposi una donna straniera, purché appartenente ad una delle religioni del Libro. Si legge ancora nel Corano: “Non ammogliatevi con donne appartenenti al clan dei creatori di divinità” (ivi); “Vi è permesso contrarre matrimonio con donne credenti di buona condizione e con quelle che appartengono alla gente cui la scrittura fu rivelata prima di voi: vi è permesso a patto che abbiate donato loro la giusta ricompensa come maschi che contrattano un  matrimonio regolare, non come libertini alla ricerca di illeciti piaceri o di amanti occasionali” (5.5)

4) Per quanto riguarda la Chiesa cattolica è riscontrabile all'inizio, nella sua fase nascente, un atteggiamento ottimistico di fiducia nella nuova “buona novella”, di persuasione che essa sia capace di imporsi sulle altre credenze. Un simile atteggiamento è ben testimoniato da S. Paolo all’epoca delle prime comunità cristiane: “Se un nostro fratello ha la moglie non credente e questa consente a rimanere con lui, non la ripudi; e una donna che abbia il marito non credente, se questi consente a rimanere con lei, non lo ripudi: perché il marito non credente viene reso santo dalla moglie credente e la moglie non credente viene resa santa dal marito credente” (1 Cor 7, 14). Ma lo stesso S. Paolo si prospetta realisticamente l’irrealizzabilità di questa prospettiva, tanto da arrivare ad ammettere, contro il principio dell’indissolubilità del matrimonio, che il coniuge credente possa riprendersi la sua libertà se l’altro lo abbandona o non accetta di vivere pacificamente con lui: “Ma se il non credente vuol separarsi, si separi; in queste circostanze il fratello o la sorella non sono soggetto a servitù; Dio vi ha chiamato alla pace !”. Sarà poi quest’ultima indicazione ad avere la prevalenza ed a costituire la base per un’eccezionale ipotesi di scioglimento del vincolo coniugale ammessa dal diritto canonico, il cosiddetto privilegio paolino.

Passato lo slancio delle prime comunità, anche la Chiesa prenderà realisticamente atto dei pericoli insiti nei matrimoni misti e non tarderà a proibirli, delineando per essi uno specifico impedimento che arriverà ad incidere sulla stessa validità del matrimonio. Ma anche qui va rilevato che nei momenti di maggior pericolo per l'integrità della fede si accentua l'avversione verso questo tipo di matrimoni. Significativo è così l'atteggiamento verso il matrimonio tra cattolico e battezzato non appartenente alla Chiesa cattolica. Pur essendoci una comunanza di battesimo tra i due sposi e pertanto l'assunzione del matrimonio alla dignità di sacramento, pur non essendoci in questo caso un impedimento dirimente ma soltanto impediente, il matrimonio è oggetto di una forte riprovazione da parte dei pontefici, preoccupati della diffusione della Riforma protestante. Così il papa Benedetto XIV, intervenendo nel 1741 sulla questione della validità dei matrimoni celebrati in Belgio tra cattolici ed “eretici” senza l’osservanza della forma canonica prescritta dal Concilio di Trento, dichiara validi tali matrimoni ma aggiunge: “Sua santità, si rammarica che tra i cattolici ve ne siano che, perdendo il senno turpemente per un folle amore, non aborriscono sinceramente e non ritengono di astenersi da questi detestabili matrimoni che la santa madre Chiesa ha sempre condannato e proibito» ed esorta e ammonisce con forza i pastori d’anime «perché distolgano i cattolici dell’uno e dell’altro sesso dal contrarre tali matrimoni per la rovina delle loro anime e cerchino nel modo più efficace di ostacolare e impedire queste nozze» (Matrimonia quae in locis , 4 novembre 1741).

In tempi a noi relativamente più vicini, verso la fine dell’Ottocento, un altro papa, Leone XIII ribadiva chiaramente l’avversione per i matrimoni dei cattolici con persone di diversa fede religiosa. «Di un’altra cosa si deve ancora avere cura, che cioè non si desiderino con facilità le nozze con persone che non appartengono alla Chiesa cattolica. Infatti si possono nutrire poche speranze che gli animi dissidenti in materia religiosa riescano ad andare d’accordo nel resto. Anzi, che si debba rifuggire da siffatti connubi, si comprende soprattutto per il fatto che essi porgono occasione alla vietata comunanza e partecipazione delle cose sacre, mettono a rischio la religione del coniuge cattolico, sono d’impedimento alla buona istruzione della prole, e troppo spesso inducono gli animi ad assuefarsi a tenere in pari stima tutte le religioni, eliminando ogni differenza tra il vero ed il falso»  (Enciclica Arcanum divinae sapientiae,10 febbraio 1880).

     Ed ancora nel codice del 1917 risuonava con forza l’avversione a questi matrimoni: “Severissime Ecclesia ubique prohibet” che si celebrino matrimoni tra un battezzato ed un seguace di una “setta eretica o scismatica” o tra un battezzato e una persona non battezzata, aggiungendo che siffatti matrimoni erano da ritenersi vietati dalla stessa legge divina quando fosse presente il pericolo di perversione del coniuge cattolico e della prole (can. 1060, 1071).

     Questa avversione della Chiesa poteva per altro nei singoli casi concreti essere mitigata dall’uso frequente della dispensa, una tipica misura a cui il diritto canonico ricorre quando occorre conciliare l’astratto precetto legislativo con le esigenze del caso umano che viene in considerazione. Ma la dispensa veniva concessa soltanto se il coniuge non cattolico dava assicurazione di rimuovere dal coniuge cattolico ogni pericolo di perversione della fede e se ambedue davano assicurazione di battezzare ed educare tutta la prole nella religione cattolica.

5) L’atteggiamento della Chiesa verso i matrimoni misti era però destinato a mutare sotto la spinta del Concilio Vaticano II.

      La dottrina conciliare segna un pieno riconoscimento della libertà religiosa come diritto spettante ad ogni uomo, dentro e fuori della Chiesa, un diritto che trova un suo preciso fondamento nella stessa dignità della persona umana. Un diritto in virtù del quale ”tutti gli uomini devono essere immuni da coercizione da parte di singoli individui, di gruppi sociali e di qualsivoglia potestà umana, così che in materia religiosa nessuno sia forzato ad agire contro la sua coscienza, né impedito, entro debiti limiti, ad agire in conformità ad essa” (Dichiarazione Dignitatis humanae). Vi è poi una diversa attenzione verso le altre religioni e, in modo particolare, verso le Chiese cristiane non cattoliche. Riguardo alle prime, la Chiesa non rigetta “nulla di quanto è vero e santo” in esse e considera “con sincero rispetto quei modi di agire e di vivere, quei precetti e quelle dottrine che, quantunque in molti punti differiscano da quanto essa crede e propone, tuttavia non raramente riflettono un raggio di quella verità che illumina tutti gli uomini” (Dichiarazione Nostra aetate). Riguardo alle confessioni cristiane non cattoliche, il Concilio segna un deciso rilancio del movimento ecumenico, di quegli sforzi che tendono a ristabilire l’unità di tutti i cristiani, superando quella divisione che “contraddice apertamente alla volontà di Cristo”. Abbandonando ogni posizione di condanna o di recriminazione, la Chiesa dichiara di abbracciare “con fraterno rispetto ed amore” tutti coloro che credono in Cristo, considerandoli “costituiti in una certa comunione, sebbene imperfetta, con la Chiesa cattolica”. Abbandonando ogni posizione di condanna o di recriminazione, la Chiesa dichiara di abbracciare “con fraterno rispetto ed amore” tutti coloro che credono in Cristo, considerandoli “costituiti in una certa comunione, sebbene imperfetta, con la Chiesa cattolica (Decreto Unitatis redintegratio).

     Subito dopo la chiusura del Concilio il papa Paolo VI avvia una profonda riforma di questa materia. L’atteggiamento di fondo non è quello difensivo, di arroccamento a salvaguardia della fede cattolica e della comunità ecclesiale, ma di sincera preoccupazione delle difficoltà che i matrimoni misti incontrano nella vita coniugale.

«La Chiesa – scrive Paolo VI nel motu proprio Matrimonia mixta del 1970 – “con senso di responsabilità, sconsiglia di contrarre matrimoni misti, essendo suo vivo desiderio che i cattolici nella loro vita coniugale possano raggiungere una perfetta coesione spirituale e una piena comunione di vita”. C’è quindi un significativo spostamento dell’attenzione della Chiesa: non è più la fede e la comunità ecclesiale a porsi in primo piano, ma le persone stesse dei due coniugi, con  realistica percezione dei pericoli a cui può andare incontro il loro progetto di vita coniugale.

Questa nuova legislazione (che è stata poi recepita nel Codex iuris canonici del 1983) non è, in realtà, riuscita ad impostare in modo radicalmente nuovo la materia, superando ogni compromesso con il passato. Essa conserva infatti, anche se in toni molto più attenuati, le tradizionali proibizioni nei confronti di questi matrimoni, nella forma di impedimento dirimente nel caso di disparitas cultus (matrimonio tra cattolico e non battezzato) e di proibizione non invalidante nel caso della mixta religio (matrimonio tra cattolico e battezzato non cattolico).

Vi sono però importanti e significative novità in materia di dispensa da questi impedimenti e della forma con la quale questi matrimoni possono essere celebrati.

Riguardo al primo punto, si continua ad esigere un impegno formale in relazione ai due principali pericoli che, dal punto di vista ecclesiale, sono insiti nei matrimoni misti: il pericolo che la parte cattolica, sotto l’influsso del coniuge di diversa religione, possa perdere la propria fede ed il pericolo che i figli non vengano educati nella religione cattolica. Ma questo impegno non viene più richiesto, come prima avveniva, alla parte non cattolica, ma allo stesso fedele. Il non cattolico deve soltanto essere chiaramente informato e reso consapevole dei precisi impegni assunti dal proprio coniuge: vengono così rispettati i suoi intimi convincimenti ed i comportamenti che egli si senta in coscienza di dover seguire, anche se questi possano comportare un pregiudizio per le esigenze ecclesiali.

L’impegno che la parte cattolica è tenuta ad assumere non è poi formulato in termini assoluti, ma viene calato nella concreta realtà personale, umana ed ambientale della vicenda matrimoniale. Essa infatti deve dichiararsi “pronta” (“se paratam esse”) ad allontanare i pericoli di abbandonare la fede e deve promettere sinceramente di fare “quanto è in suo potere” (“pro viribus”), perché tutti i figli siano battezzati ed educati nella Chiesa cattolica (si vedano i can. 1125 e  1086 del vigente codice canonico).

Riguardo alla forma di celebrazione, pur restando in via generale l’obbligo di seguire la forma canonica, sono previste ampie possibilità di deroga. Con una dispensa del vescovo il matrimonio può essere validamente celebrato secondo la forma ed il rituale della confessione a cui appartiene l’altro coniuge (con un pieno riconoscimento, quindi, delle esigenze religiose di questo, al punto da farle prevalere su quelle dello stesso sposo cattolico) od anche in forma civile, ossia in una forma neutra dal punto di vista religioso, tale quindi da non urtare la sensibilità religiosa di nessuno dei due sposi (can. 1127). E’ significativo che la Conferenza episcopale italiana, dando attuazione a queste disposizioni, abbia disposto che le nozze siano preferibilmente celebrate davanti a un legittimo ministro di culto, e non con il solo rito civile, “stante la necessità di dare risalto al carattere religioso del matrimonio” (Decreto CEI 5 novembre 1990, art. 50).

6) Un ulteriore progresso nella considerazione dei matrimoni misti si è avuto a livello di Conferenze episcopali nazionali, alle quali è riconosciuta la competenza di integrare ed esplicitare le regole generali contenute nel codice canonico. La Conferenza episcopale italiana, in particolare, ha raggiunto un accordo con le Chiese valdese e metodista (e, più di recente, anche con la Chiesa battista) che mira a sviluppare     “un’intesa pastorale che impegni non soltanto i ministri delle due chiese, ma le stesse comunità, creando un ambiente spirituale che garantisca un’autentica testimonianza della comune fede nell’Evangelo, un chiaro confronto dinanzi alle diversità confessionali e una ricerca serena delle soluzioni migliori dei problemi che si possono porre in casi particolari”.

E’ stato così elaborato e sottoscritto (il 16 gennaio 1997) un Testo comune accompagnato da un Testo applicativo. In questi documenti si cerca, innanzi tutto, di meglio precisare il significato degli impegni che la parte cattolica è tenuta ad assumere in ottemperanza alle prescrizioni canoniche. Si precisa così che i pericoli che la parte cattolica si deve dichiarare pronta ad allontanare “non derivano dalla fede della parte evangelica, la quale può anzi concorrere ad edificare la fede del coniuge cattolico, e viceversa, ma derivano dal rischio di indebolire la propria identità ecclesiale o addirittura di cadere nell’indifferentismo o nel relativismo religioso, trascurando, o abbandonando, la frequentazione della propria  chiesa”. In riferimento all’altra promessa riguardante l’educazione religiosa dei figli, si precisa ancora che essa “vuole esprimere l’impegno di fedeltà della parte cattolica di vivere e testimoniare compiutamente la propri fede anche verso i figli, tenendo conto che uguale diritto-dovere ha la parte evangelica relativamente alla propria vocazione così come è condivisa nella sua chiesa di appartenenza”.

      Sulla base di questi intenti viene proposta una nuova formulazione in positivo delle dichiarazioni richieste alla parte cattolica. Quella riguardante la fede dovrebbe essere così concepita: “Dichiaro di impegnarmi a mantenere e approfondire la mia fede e riconosco al contempo la fede cristiana del mio coniuge evangelico”. Quella riguardante i figli, potrebbe essere così formulata: “Prometto di fare quanto sarà in mio potere perché tutti i figli siano battezzati ed educati nella fede cattolica, tenendo conto che il mio coniuge ha lo stesso diritto-dovere di fedeltà nei confronti della propria vocazione così come è vissuta nella chiesa di appartenenza. Cercherò pertanto di concordare con il mio coniuge quelle scelte che si riveleranno più adeguate per il mantenimento e l’approfondimento della nostra comunione e per il bene della vita spirituale dei nostri figli”.

Interessanti sono anche  le indicazioni che il testo comune fornisce sulla celebrazione nuziale. Quando il matrimonio interconfessionale viene celebrato in forma canonica, se gli sposi lo chiedono, “è ammessa e gradita la partecipazione, che non è concelebrazione, di un ministro o di una rappresentanza della Chiesa valdese alla celebrazione del matrimonio.” Allo stesso modo, nel caso di celebrazione secondo la liturgia valdese, se gli sposi lo chiedono, “è ammessa e gradita la partecipazione del ministro cattolico alla liturgia, come segno di un servizio che si vuole rendere alla realizzazione di un progetto unitario di vita coniugale cristiana”.

         Nel caso di celebrazione in forma civile – che il vescovo cattolico, come abbiamo visto, può autorizzare come valida forma di celebrazione – si sottolinea la necessità di spiegare, specialmente ai fedeli cattolici, che “questa forma di matrimonio non è un matrimonio civile nel senso generalmente inteso dai cattolici, ma è un matrimonio in forma civile”, vale a dire non un matrimonio contratto da fedeli che non vogliono o non possono accostarsi alla celebrazione religiosa, ma un matrimonio valido e con piena efficacia di sacramento.”      

          7) Problemi più gravi si pongono per i matrimoni dei cattolici con persone di religione islamica, che vanno facendosi sempre più frequenti anche nel nostro Paese. In merito sono intervenute numerose Conferenze episcopali nazionali, ivi compresa quella italiana, la cui Presidenza ha emanato, il 29 aprile 2005, una serie di Indicazioni da tenere presenti nei riguardi di tali matrimoni.

   “Le coppie miste di cattolici e musulmani che intendono oggi formare una famiglia – si legge in  questo documento – alle difficoltà che incontra una qualsiasi altra coppia, devono aggiungere quelle connesse con le profonde diversità culturali e religiose. Far acquisire consapevolezza riguardo a queste difficoltà è un primo, fondamentale servizio da rendere a chi chiede un tale matrimonio.

      Vi sono infatti profonde differenze che toccano non soltanto l’ambito della fede, ma aspetti molto pratici dell’impostazione della vita coniugale, che occorre considerare attentamente prima di concedere la dispensa dalla disparità di culto. Non possono infatti essere sottovalutati né tanto meno ignorati, prosegue il documento della CEI, elementi quali la “fragilità intrinseca di tali unioni, i delicati problemi concernenti l’esercizio adulto e responsabile della propria fede cattolica da parte del coniuge battezzato e l’educazione religiosa dei figli, nonché la diversa concezione dell’istituto matrimoniale, dei diritti e doveri reciproci dei coniugi, della patria potestà e degli aspetti patrimoniali ed ereditari, la differente visione del ruolo della donna, le interferenze dell’ambiente familiare d’origine”. Non bisogna poi dimenticare che il diritto islamico consente la poligamia (sino a quattro mogli), cosa che risulta chiaramente inaccettabile per una donna cattolica. Vi è, insomma, “un’antropologia culturale e religiosa profondamente diversa che le persone, talora inconsapevolmente, portano in sé” e che può facilmente suscitare gravi crisi nella coppia, sino a condurla a fratture irreparabili.

            “Attesa la complessità dei fattori in questione – conclude il documento della CEI – i matrimoni tra cattolici e musulmani devono essere comunque considerati unioni potenzialmente problematiche: pertanto è necessario adottare verso le persone coinvolte un atteggiamento molto chiaro e prudente, ancorché comprensivo. Proprio da ciò deriva l’esigenza che si prospettino per tempo alle parti i problemi che quasi inevitabilmente si presenteranno, verificando così non solo la loro generica buona volontà, ma anche la disponibilità e la reale attitudine ad affrontarli di comune accordo”.

      Se non si ritiene che siano state raggiunte queste condizioni è opportuno orientare la coppia verso un’ulteriore riflessione, concedendole un congruo spazio di tempo. Ma “qualora i due insistano nella volontà di sposarsi, potrebbe essere pastoralmente preferibile tollerare la prospettiva del matrimonio civile, piuttosto che concedere la dispensa, ponendo la parte cattolica in una situazione matrimoniale irreversibile” (n. 21).

Se si considera che il matrimonio civile non è considerato un valido matrimonio per i battezzati cattolici e che la Chiesa ha per moltissimo tempo avversato questo matrimonio, mettendolo sullo stesso piano di un mero, se non “turpe e peccaminoso”, concubinato, si deve riconoscere che siamo di fronte ad un atteggiamento di notevole apertura pastorale e di sensibilità per i delicati aspetti umani connessi a queste difficili situazioni matrimoniali.

Una serie di problematiche particolari sorge nel caso in cui sia un uomo cattolico a voler sposare una donna musulmana. Come abbiamo già visto questo matrimonio è rigorosamente proibito dalla legge islamica. Può così accadere che il consolato del Paese islamico non trasmetta i documenti all’ufficiale dello stato civile italiano se prima non risulti che il contraente cattolico ha emesso la shahâda, ossia la professione di fede consistente in questa formula solenne: “Non c’è divinità all’infuori di Dio (Allah) e Maometto è il suo inviato”. Non di rado, per aggirare l’ostacolo, il cattolico in questione pronuncia o sottoscrive la shahâda, pensando di compiere una mera formalità. Ma è bene che il parroco illustri al contraente cattolico il vero significato di questo atto, ammonendolo che non si tratta di un mero adempimento burocratico, ma di una apostasia dalla fede cattolica.

      Anche in questi casi si potrebbe valutare  l’eventualità di ricorrere alla previa celebrazione del matrimonio con il rito civile, procedendo solo in un secondo momento alla celebrazione canonica, per superare il mancato rilascio dei documenti da parte del consolato. La normativa italiana, infatti, consente di celebrare il matrimonio civile con una musulmana senza la dovuta documentazione e senza il “nulla osta” internazionale, in quanto la disparità di trattamento prevista dalla legislazione islamica contrasta con la Costituzione italiana, secondo il principio della reciprocità, e viene a porsi in contrasto con i principi di ordine pubblico.

Il matrimonio civile così celebrato, però, sarà valido solo per l’ordinamento italiano e non nel Paese d’origine della donna musulmana; la coppia perciò, con ogni probabilità, dovrà affrontare problemi gravosi in rapporto sia alla famiglia, sia al Paese d’origine.

8) Un’ultima considerazione merita di essere fatta in ordine ai matrimoni tra cattolici e cristiani ortodossi. Sono attualmente i matrimoni che più frequentemente vengono celebrati in Italia, più del 50 % di tutti i matrimoni interconfessionali, soprattutto con donne provenienti dai paesi dell’Est europeo (tra i quali prevale nettamente la Romania). Trattandosi di due cristiani, per di più con un patrimonio dogmatico, cultuale e sacramentale in larga parte comune, la diversa appartenenza confessionale non è tale da creare particolari problemi. Tanto più in presenza di quella maggiore apertura e spirito di vicinanza che la Chiesa cattolica sta dimostrando verso le Chiese non in piena comunione con  essa.

Un problema delicato sorge però in relazione al diverso modo di intendere il principio dell’indissolubilità del matrimonio tra Chiesa cattolica e Chiese ortodosse. Quest’ultime, pur condividendo in linea di principio questa fondamentale caratterizzazione del matrimonio, ritengono che nelle concrete situazioni di infelice esito della vita coniugale debba essere applicato il principio dell’oiconomia, ossia si debba adottare un atteggiamento improntato alla misericordia ed alla comprensione della debolezza umana. Viene così ammesso lo scioglimento del matrimonio e la conseguente possibilità di celebrarne un secondo, anche se a questo non si riconosce un pieno carattere sacramentale.

Si verifica così con una certa frequenza che il coniuge ortodosso abbia ottenuto il divorzio dalla competente autorità della Chiesa a cui appartiene e si ritenga pertanto, a buon diritto, di stato libero (come risulta anche dalla documentazione che egli può presentare) e in condizione di celebrare un valido matrimonio con un cattolico.

Diverso è però il punto di vista della Chiesa cattolica. Essa ritiene  che il principio dell’indissolubilità sia un  principio di diritto naturale e che, come tale, riguardi qualunque tipo di matrimonio. Non può quindi essere disposto alcuno scioglimento da parte di autorità civili o religiose, essendo tutti tenuti al rispetto del diritto naturale. Il matrimonio per la Chiesa cattolica non può dunque essere celebrato, a meno che il coniuge ortodosso non riesca ad ottenere la nullità del suo precedente matrimonio da un Tribunale ecclesiastico cattolico od anche, se vi sono sufficienti garanzie sulla procedura adottata, da un tribunale della sua Chiesa.

 9) Vi è ancora da osservare che la professione religiosa e l’appartenenza confessionale non sono prese in considerazione dalle leggi matrimoniali vigenti nei nostri paesi di civiltà occidentale, improntati ai principi di laicità e di separazione tra Stato e Chiese. Bisogna però tener presente che in numerosi Stati, in particolare in quelli di aerea musulmana, vige il sistema degli statuti personali, che comportano l’applicazione del regime matrimoniale proprio della confessione religiosa di appartenenza. E’ quindi a questo regime che si dovrà integralmente fare riferimento per quanto riguarda la capacità delle parti al matrimonio, le proibizioni o o gli impedimenti, le modalità di celebrazione e le eventuali ipotesi di scioglimento o di annullamento del vincolo. Anche la legislazione confessionale sui matrimoni misti avrà quindi rilevanza in quanto facente parte dello statuto personale riconosciuto in questi Stati.

Per concludere sui matrimoni misti, si deve riconoscere che essi costituiscono un fenomeno sociale di indubbio interesse in tutte quelle società caratterizzate da un forte flusso migratorio e da una corrispondente crescita del tasso di multiculturalità. Essi non possono essere demonizzati o respinti, ma vanno seguiti con attenzione se si ha a cuore un assetto armonico della società, che riesca a far convivere e ad integrare tra di loro le diverse culture, etnie e religioni che ne fanno parte. D'altro canto è bene mantenere verso di essi un atteggiamento realistico e prudente, attento ai rischi ed alle difficoltà che essi indubbiamente presentano per la vita coniugale. Occorre infatti evitare che da momenti vivi e concreti di reciproca comprensione ed integrazione si trasformino in esempi negativi di dissociazione e di discriminazione.